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Misiani: “Pnrr lo stallo è grave. Presentiamo un piano di politica industriale”

La messa a terra del Piano di ripresa e resilienza si muove con evidente difficoltà, mentre si è in attesa della terza rata da Bruxelles: la sua opinione?

“Siamo in una preoccupante situazione di stallo, sul Pnrr. In nove mesi il governo Meloni ha cambiato la governance, con risultati discutibili, e ha giocato allo scaricabarile verso i governi precedenti e gli enti locali. La cosa più importante che era stata annunciata, la revisione del Piano di cui parlano da mesi e mesi, è invece rimasta per aria: finora non è arrivata una carta che sia una, né a Roma né a Bruxelles. Nel frattempo quattro Paesi europei hanno visto approvata la loro proposta di revisione e altri sei l’hanno ufficialmente presentata. Meloni e il ministro Fitto devono svegliarsi: stiamo perdendo tempo, soldi e credibilità. La terza rata da 19 miliardi doveva essere trasferita a febbraio, ma la stiamo ancora aspettando. Quanto alla quarta rata da 16 miliardi, non si sa se e quando arriverà. Noi siamo pronti a metterci alla stanga, come chiede il presidente Mattarella. Ma per fare la nostra parte, abbiamo bisogno che il governo passi dalle parole ai fatti”.

Anche sul Fondo salva Stati (Mes) si procede tra incertezze e rinvii: quali sono le opportunità e perché l’Italia resta l’unico Paese a non ratificare la riforma?

“Il Trattato modifica il Mes, attribuendogli anche la funzione di paracadute finanziario in caso di crisi bancarie. E’ una cosa utile e positiva, tanto è vero che 19 Paesi sui 20 della zona euro hanno ratificato il Trattato. L’Italia è rimasto l’unico Paese a non averlo fatto, per motivi esclusivamente ideologici. La verità è che Lega e Fdi sono prigionieri della loro propaganda sovranista e non sanno come uscirne. Per questo preferiscono rinviare tutto, anche al prezzo di figuracce come l’Aventino dei partiti di maggioranza, che nei giorni scorsi hanno disertato i lavori della Commissione esteri della Camera pur di non dover decidere sul Mes. È tempo che decidano cosa fare da grandi”.

Si comincia a discutere, a Bruxelles, della prossima riforma del Patto di stabilità che riguarda i vincoli di bilancio: l’Italia con chi sta?

“All’Italia conviene stare in Europa. E in Europa ci conviene stare con chi condivide la nostra impostazione, non con chi è più vicino ideologicamente alla destra che ci governa. La Meloni in questi mesi ha oscillato, tra ripetuti contrasti con Macron, la freddezza con il cancelliere tedesco Scholz e la simpatia verso i Paesi sovranisti più ostili agli interessi nazionali dell’Italia. Sono contraddizioni da superare rapidamente. Le partite che si giocheranno in Europa nei prossimi mesi sono importantissime, non possiamo permetterci errori”.

Veniamo al salario minimo. Il governo non lo vuole, mentre per il Pd è uno strumento urgente: perché?

“Il lavoro povero è enormemente cresciuto in questi anni, anche a causa della proliferazione di contratti pirata che hanno legittimato situazioni di vero e proprio sfruttamento. Oggi in Italia oltre tre milioni di dipendenti guadagnano meno di nove euro lordi l’ora. Per la Meloni il salario minimo è uno specchietto per le allodole. Per noi invece è necessario. Serve una legge che lo preveda insieme a regole sulla rappresentanza. Per noi bisogna dare forza alla contrattazione collettiva nazionale delle organizzazioni maggiormente rappresentative, estendendola a tutti i lavoratori e stabilendo una soglia minima condivisa con le parti sociali per i settori a più alta intensità di povertà lavorativa”.

I dati macroeconomici per l’Italia sono relativamente buoni, ma il clima sociale appare depresso: come spiega questa contraddizione?

“I dati macroeconomici erano buoni, in realtà l’economia ora sta visibilmente rallentando, come evidenzia anche l’ultimo rapporto di Confindustria. L’inflazione rimane molto alta e i tassi di interesse sono cresciuti vertiginosamente nel giro di pochi mesi, deprimendo consumi e investimenti. L’impatto sociale di queste dinamiche è una forte erosione del potere d’acquisto dei salari e un ulteriore allargamento delle disuguaglianze, perché l’inflazione colpisce di più in proporzione le famiglie meno abbienti. Servirebbe una strategia di ampio respiro, per rilanciare l’economia e difendere i redditi. Il governo si è limitato ad un taglio del cuneo fiscale. Una scelta giusta. Peccato che duri pochi mesi, fino a novembre”.

Nel dibattito interno al Pd la questione crescita, però, non pare molto dibattuta.

“Il 6 luglio presenteremo le nostre proposte di politica industriale. Secondo noi è un tema centrale, per la crescita. Il nostro sistema produttivo è investito dalla doppia transizione ecologica e digitale. Sono processi che aprono importanti opportunità, ma anche seri rischi di deindustrializzazione. Basti pensare all’economia circolare e all’edilizia di rigenerazione, sul primo versante. E all’automotive e ai settori di più difficile decarbonizzazione, sul secondo. Abbiamo bisogno di politiche che accompagnino e sostengano le nostre imprese, a partire da quelle piccole e medie: incentivi per la digitalizzazione e l’autonomia energetica, ma anche risorse per finanziare progetti di innovazione e trasformazione. Presenteremo un documento aperto, che vogliamo discutere con le associazioni di impresa, i sindacati, il mondo dell’università e della ricerca”.

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