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Martina-Nannicini: “Sinistra, ricordati chi sei. I precari del Quinto Stato prima dei giganti del web”

Ignazio Silone, nella Scuola dei dittatori, scrive che «il colmo dell’arte di governo per i democratici dei paesi in crisi sembra consistere nell’incassare degli schiaffi per non ricevere dei calci». È così che gli eredi dei grandi riformatori del Novecento sono gradualmente diventati i tecnocrati del secolo successivo.

 

È successo quando il realismo, giusto antidoto contro la demagogia, si è fatto ideologia. Quando la sinistra ha smarrito le sue parole: quelle che danno identità, che fanno capire per cosa ti batti. Basta schiaffi. Basta timidezze.

 

Diciamo chi siamo. Perché delle due l’una: o torniamo idealisti senza illusioni, o lasceremo il campo agli illusionisti senza ideali che stanno sfasciando il Paese.

 

La crisi del 2008 segna uno spartiacque. La stagflazione degli anni Settanta marcò il passaggio dal grande consenso keynesiano, durante il quale anche i governi di centrodestra aumentavano la spesa pubblica e allargavano lo stato sociale, a quello neoliberale, quando anche i governi di centrosinistra privatizzavano e mettevano il welfare in cura dimagrante.

 

Quale nuovo consenso emergerà adesso non è dato sapere. Lo sbocco dipenderà anche da noi. Negli scorsi decenni, le disuguaglianze tra paesi si sono ridotte e milioni di persone sono uscite dalla povertà.

 

Ma i contraccolpi sulle disuguaglianze interne ai paesi sviluppati sono stati forti. La classe media è finita schiacciata in un mercato del lavoro sempre più polarizzato tra lavori super pagati e lavoretti.

 

Il Quinto Stato

Si è formato un “Quinto Stato” di persone esposte alla precarietà, privo di tutele pubbliche e sindacali, senza un’agenda politica, “straniero a casa sua” per mancanza di riconoscimento sociale. E non è un caso che queste tendenze siano andate a braccetto con l’aumento dei profitti e dei monopoli.

Per governare il cambiamento, serve un riformismo empatico e radicale. Empatico come i primi socialisti, che anche quando erano borghesi o intellettuali non costruivano il consenso leggendo Marx agli operai, ma prendendo bastonate con loro davanti alle fabbriche in sciopero. E radicale perché solo così si interpreta l’urgenza del cambiamento.

 

Oggi un riformismo radicale deve partire da quattro parole. Emancipazione. Cittadinanza. Ecologia. Europa.

Emancipazione.

 

L’aspirazione delle persone a emanciparsi da ogni costrizione economica o sociale è da sempre il faro della sinistra. Oggi questo vuol dire ripartire dal diritto universale all’istruzione di qualità per tutti. E dalla dignità del lavoro. Non c’è futuro per un Paese che spende più per interessi sul debito che in istruzione.

 

Per tutti: il cuore del nostro impegno deve ripartire dal rendere universale ciò che è solo per qualcuno. Dall’affermare che i diritti, le tutele, le opportunità o sono anche per l’ultimo della fila o, semplicemente, non sono.

Amartya Sen parla di “capacità”: quella di inseguire i propri sogni, di sottrarsi a malattie evitabili, di trovare un impiego decente, di accedere a un’istruzione di qualità, odi vivere in una comunità libera dal crimine. La lotta alle disuguaglianze deve abbracciare tutte queste dimensioni.

 

Un modello sociale così ha bisogno di risorse. Quando cambia radicalmente il mondo del lavoro e della tecnologia, dobbiamo cambiare anche come si tassa: oggi, in proporzione, paga meno tasse Bill Gates di chi assembla i computer per lui.

 

Serve radicalità. Puoi essere la multinazionale più in voga del momento, ma se trasferisci i profitti in un paradiso fiscale, pensando di tenerci buoni con qualche investimento in aree dismesse o qualche mancia all’Agenzia delle entrate, hai sbagliato i conti: se vuoi produrre nel nostro paese devi mettere a nudo i tuoi profitti consolidati e il fatturato ovunque operi, dopodiché la tassazione sarà proporzionale al volume che hai prodotto qui.

 

In attesa di un accordo multilaterale su una base imponibile comune, l’Europa o anche solo alcuni paesi europei devono fare la prima mossa.

 

Cittadinanza.

 

La difesa della democrazia passa anche dal rafforzamento del patto di diritti e doveri che sta alla base del nostro vivere comune. E ancora, serve radicalità. Chi nasce e studia in Italia è italiano. Punto. Diritti e doverivalgono per tutti gli italiani, vecchi e nuovi. Punto.

 

L’immigrazione non è un’invasione da bloccare ma una risorsa da gestire. La rinuncia degli Stati a gestirecon intelligenza le migrazioni economiche le ha regalate alla criminalità organizzata. In Italia, per lavorare, si deve poter entrare andando in ambasciata non rischiando la vita in mare.

 

E chi arriva sulla base di flussi regolati deve accettare il patto di cittadinanza e inserirsi nella nostra comunità.

 

Ecologia.

 

La transizione ecologica è una delle grandi discriminanti del nostro tempo e un riformismo radicale non può che metterla al centro. Presto 9 miliardi di persone condivideranno il nostro pianeta. Entro il 2050, due terzi della popolazione vivranno in grandi città e quella verso le aree urbane è la più grande migrazione in atto.

 

La domanda per cibo, acqua, energia e infrastrutture sta testando i limiti del nostro rapporto con la natura. È possibile crescere economicamente senza far esplodere il pianeta? La risposta è “sì” ma solo se faremo le scelte giuste.

 

L’Italia e il Mediterraneo sono particolarmente esposti al cambiamento climatico in atto. Serve, di nuovo, radicalità. È cruciale assumere l’obiettivo di zero emissioni di gas serra entro il 2045, lavorando per il taglio delle emissioni del 60% entro il 2030.

 

Europa.

 

Non prendiamoci in giro. Le prossime elezioni saranno una sfida fra tre linee: sfasciare la costruzione europea; conservarla così com’è; oppure costruire un’Europa politica. Non si tratta di creare un super Stato.

 

E neanche di “cedere sovranità” come troppe volte abbiamo detto. Si tratta di costruire una nuova sovranità intorno a temi strategici, che semplicemente non avranno soluzione se non a livello sovranazionale. Con chi ci sta. Lo sappiamo: la storiella della nuova Europa gli elettori l’hanno già sentita.

 

Ci abbiamo fatto tanti convegni. Mai una scelta. Ancora, radicalità. Serve un Presidente eletto dai cittadini europei, un Parlamento che legifera, strumenti di partecipazione permanenti, un budget a gestione politica che completi l’unione monetaria con un’unione fiscale per gestire la domanda aggregata. E serveun’unione sociale.

 

Sì, redistribuendo i rischi tra cittadini europei. Su questo i riformisti radicali non possono essere ambigui. È legittimo che la signora Schulz abbia paura che parte delle sue tasse possano aiutare il signor Rossi quando perde il lavoro, ma senza la condivisione di alcuni rischi l’Europa muore.

 

Anche nella costruzione dello stato sociale nazionale, la redistribuzione non è stata un processo semplice, con linee di frattura che hanno attraversato la sinistra. C’era chi la voleva solo al Nord, chi solo per gli operai. Adesso è il momento di fare la stessa scelta in Europa. Per dirla con Martha Medeiros, lentamente muore chi non capovolge il tavolo.

Capovolgiamolo.

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