Il 2023 appena terminato è stato l’anno più caldo della storia, da quando il dato medio globale è stato sistematicamente misurato (ossia dalla seconda metà del 1800); l’anomalia registrata ha sfiorato di poco il valore di 1,5 gradi centigradi sopra il valore pre-industriale.
Lo lasciavano intendere moltissimi segnali, ma adesso è arrivata la certezza dalla comunità scientifica. Un anno che, per restare ai soli aspetti climatici, ha infranto moltissimi record in senso negativo, in particolare per il nostro Paese.
Una notizia allarmante che, però, non sorprende: tutti i numeri, le proiezioni, le previsioni dell’ambientalismo scientifico purtroppo da tempo parlano chiaro. Come non lasciano spazio a dubbi o tentennamenti quelli raccolti dall’ ”Osservatorio CittàClima” di Legambiente: dal 2022 al 2023 gli eventi metereologici estremi in Italia sono cresciuti del 22% arrivando a superare la media di un evento al giorno (sono 378 in tutto). Tra allagamenti da piogge intense, esondazioni di fiumi, frane, trombe d’aria, grandinate distruttive, da un lato e, dall’altro, siccità ed oasi di calore, il contatore dei danni, limitandosi ai soli casi dell’Emilia Romagna e della Toscana, ha superato gli 11 miliardi di euro. Per non parlare del danno irrecuperabile e incalcolabile delle oltre 30 persone che, a causa di questi eventi, hanno perso la vita.
Eppure.
Eppure il governo Meloni non ha ancora mosso un dito, o, meglio detto, messo un euro sul Piano Nazionale di Adattamento alla Crisi Climatica (PNACC, recentemente approvato ma gravemente insufficiente proprio nella parte propositiva), né, tantomeno, ha dedicato energie politiche alla calendarizzazione della legge sul consumo di suolo, o risorse economiche nella legge di bilancio per rendere il nostro territorio meno fragile. E tutto ciò mentre la questione diviene sempre più urgente, a maggior ragione perché il livello di pressione e di rischio non potrà fare altro che aumentare.
Eppure siamo nelle mani di una destra imbrigliata in un’incapacità grave di giocare un ruolo efficace a livello internazionale, visto che con gli slogan sovranisti del “prima io”, va da sé che le alleanze non funzionino, persino con i leader molto affini a livello di ideologie di riferimento. Un’incapacità che sul fronte della conversione ecologica diviene addirittura grottesca (basti pensare al non-ruolo del Ministro Pichetto Fratin tanto in Europa, quanto a Dubai alla COP28), visto che siamo un Paese terribilmente dipendente da risorse di cui non controlliamo né disponibilità, né prezzo, che godrebbe di immediati vantaggi politici ed economici proprio grazie all’abbandono delle fonti fossili. Lungi dal cavalcare questa opportunità, il governo Meloni continua a condizionare il dibattito politico e mediatico ricordando continuamente e ossessivamente i costi della transizione, senza accennare minimamente a quanto stiamo già pagando di tasca nostra, per non volerla fare.
Eh si, perché, per fare bene i conti, non basta fare solo ipotesi sugli investimenti necessari e urlare scomposti e sconcertati, bisogna considerare anche l’entità dei danni strutturali e infrastrutturali appena visti (ricordando che correre dietro ai danni costa quattro volte di più che investire in prevenzione), a cui si dovrebbero aggiungere, tanto per fare qualche esempio:
- le circa 60.000 morti premature legate all’insalubrità dei nostri territori (in particolare a causa della pessima qualità dell’aria),
- i danni all’agricoltura (con le false primavere, la siccità alle porte e i patogeni che prolificano grazie alle temperature miti o che addirittura giungono indisturbati dai tropici a colonizzare nuovi habitat, alla granchio blu maniera),
- i danni al turismo (per restare all’attualità: quanto può resistere l’indotto legato agli impianti sciistici dell’Appennino ai costi diretti e indiretti, anche ambientali, della neve artificiale?).
Per non parlare dei danni al sistema tutto, industriale, economico e sociale, che fa chi (un po’ come nel film del 1995 “Underground”, di Kusturica o in Good bye Lenin, del 2003) si ostina a guardare il mondo come se le grandi trasformazioni, le grandi crisi e le enormi opportunità dei tempi moderni non abbiano fatto saltare tutte le certezze, continuando a pretendere che la realtà si pieghi ad una narrazione che puzza di muffa (e di petrolio).
Se persino da un contesto “lento” per definizione (e questa volta pure particolarmente critico), come quello della COP28, il messaggio sul mondo che sta cambiando rotta è arrivato forte e chiaro, non si capisce quale lungimiranza o minima efficacia possa esserci in chi decide di fare come lo struzzo, cercando di tenere la testa sotto la sabbia il più a lungo possibile.
Si, perché chiunque sia stato a Dubai ha dovuto constatare quanto sia ormai chiara la presa di atto collettiva relativa all’urgenza di cambiare verso, virando dall’era sprecona, violenta e diseguale delle fonti fossili a quella della giustizia climatica, trainata da efficienza energetica e fonti rinnovabili, l’unica in grado di costruire economie solide e relazioni internazionali foriere di pace.
Chiunque abbia un minimo di cognizione dei processi in corso nel mondo (con la Cina che ha sbaragliato tutte le previsioni rispetto alla velocità di installazione di centrali alimentate da fonti rinnovabili, piuttosto che a carbone, tanto da far correggere gli scenari dell’agenzia internazionale dell’energia) non può fingere che insistere ossessivamente nell’immaginare un’Italia “hub del gas”, mettendo ulteriori bastoni tra le ruote alle rinnovabili (come un decreto aree idonee che moltiplica la confusione o come un’ulteriore tassa sul diritto di superficie, saltata fuori in legge di bilancio), non sia un’ipotesi fallimentare.
Significherebbe condannare il Paese a restare incaprettato ai voleri di questo o quel detentore delle chiavi dei giacimenti e delle infrastrutture, sovvenzionando ancora un po’ pochissimi player “fossil-centrici” ancora convinti che non sia giunto il momento di cambiare, ma facendo perdere, nel frattempo, tanto competitività strategica al sistema manifatturiero, già gravemente fiaccato, quanto potere di acquisto alle cittadine e ai cittadini italiani (che, è bene ricordarlo, pagano le bollette tra le più alte di Europa a causa della dipendenza dal gas, per giunta con un sistema mal regolato e sistematicamente preda di atteggiamenti speculativi).
Anche la recente corposa lista di insufficienze/inadempienze giunta della Commissione Europea che ha analizzato il Piano Nazionale per l’Energia e il Clima, che era pienamente prevedibile, dipende da questa mancanza totale di visione e di indirizzo e da questa postura cerchiobottista del Governo, che pretende di nascondere dietro la retorica della “coperta corta” (che non manca di trovare fondi per un eco-mostro inutile e dannoso, come il ponte sullo stretto di Salvini) tutta la propria inadeguatezza.