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“Perché il Jobs act sta funzionando”. Il commento di Filippo Taddei e Tommaso Nannicini

Leggendo alcune reazioni ai dati INPS sul mese di agosto, viene da domandarsi se la fine dell’estate abbia portato la fine del Jobs Act, cioè la riforma che ha ridotto le tasse sul lavoro a tempo indeterminato, cambiato le regole contrattuali ed esteso gli ammortizzatori. Le critiche sono essenzialmente due: due mesi fa la variazione netta dei contratti a tempo indeterminato è stata negativa e i licenziamenti sono “aumentati”.

 

Ma cos’è successo davvero nel mercato del lavoro di agosto? Siccome le opinioni sono importanti ma i fatti lo sono ancora di più, concentriamoci sui dati ad oggi disponibili. Il 30 settembre l’Istat registrava un aumento dell’occupazione e, in particolare, un rialzo dell’occupazione stabile che raggiungeva i 14 milioni e 920mila lavoratori. Per raggiungere un livello di occupazione stabile più alto di questo bisogna risalire all’agosto 2009. Sono cioè 7 anni che l’occupazione stabile non è più alta dell’agosto 2016. L’Inps del 10 ottobre riporta però che, se guardiamo alla variazione netta dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato, è avvenuto un calo dei contratti di oltre 23 mila unità.

 

Come è possibile allora che, nel caso del lavoro a tempo indeterminato, l’Istat parli di aumento degli occupati quando l’Inps parla di riduzione dei contratti di lavoro? La risposta è semplice: i contratti di lavoro non sono i posti di lavoro – posso avere due contratti di lavoro ed essere un solo lavoratore occupato, i dati Inps per agosto possono essere integrati dai datori di lavoro con le dichiarazioni di settembre (vedi nota bene in fondo alla tabella 3a), mentre l’Istat utilizza una indagine per misurare l’effettivo numero di posti di lavoro attivi in un dato mese. In conclusione, è un po’ sorprendente utilizzare i dati Inps per decretare il fallimento del jobs act e della sua azione di stabilizzazione. Anche perché, se lo si facesse, si dovrebbe risolvere un altro grattacapo agostano per nulla scontato: mentre calavano i contratti di lavoro a tempo indeterminato (23mila unità), nello stesso mese tracollava il lavoro a termine (-56mila) e gli stagionali (-29mila). E ancora: il calo dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato dell’agosto 2016, post jobs act, è inferiore al calo di agosto 2014 (-27mila). Quindi, rispetto al lavoro precario, il contratto a tempo indeterminato rimane quello che avanza maggiormente nelle fasi di crescita e cala di meno nelle fasi di rallentamento.

 

I dati sui licenziamenti non smentiscono questa dinamica: il numero complessivo nel 2016 è di 2mila licenziamenti in meno passando da 306mila a 304mila rispetto al 2014 quando non era entrato in vigore il jobs act. Inoltre, riguardo all’aumento dei licenziamenti per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, non sappiamo se siano avvenuti tra le imprese sotto e quelle sopra i 15 addetti, quelle cioè in cui valeva l’articolo 18 superato dalla riforma del lavoro.

 

In conclusione delle due l’una: o il jobs act ha avuto un effetto precarizzante, ma allora non si spiega perchè il lavoro a termine cali più di quello a tempo indeterminato e il calo del tempo indeterminato ad agosto sia inferiore rispetto al 2014, oppure agosto è solo un mese in cui la dinamica occupazionale rallenta senza invertire il complessivo effetto positivo di una riforma, il jobs act, che ha rafforzato il lavoro stabile e ha dato più tutela effettiva e opportunità ad una grande fetta di lavoratori italiani esclusi dalla crisi.

 

Filippo Taddei, responsabile Economia e lavoro Pd, e Tommaso Nannicini, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, su l’Unità

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