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Migliore: «Calenda e Zingaretti sono scorciatoie. Ripartiamo dalla politica!»

«Per rifondare il Pd non dobbiamo nè guardare all’esterno, nè costruire fronti politicisti». Nel pieno della crisi del suo partito, Gennaro Migliore boccia in modo netto le proposte di Nicola Zingaretti e Carlo Calenda e individua il modello vincente: «I democratici americani, dove convivono varie anime ma, fatte le primarie per individuare linea e leadership, tutti lavorano nella stessa direzione».

 

Il voto alle amministrative è l’ennesimo segnale dall’arme per il Pd, che perde anche nelle “zone rosse”?

 

È vero che abbiamo avuto risultati negativi nelle zone rosse, ma anche a questa sconfitta dobbiamo dare l’enfasi corretta. Accanto a delle sconfitte importanti, non si possono però oscurare i riscontri positivi del centro-sud, in particolare a Roma, nel Lazio e in Puglia. Bisogna riconoscere anche questi elementi, se non altro per una questione di rispetto per chi si è candidato con il Pd, ha combattuto battaglie importanti e le ha vinte.

 

Però, a guardare la nuova mappa politica della Toscana o dell’Emilia viene da pensare che si sia chiuso un mondo.

 

La crisi del Pd nelle zone rosse è dovuta a tanti fattori, innanzitutto una generale richiesta di cambiamento in territori dove non c’è stato mai un richambio e il Pd non ha potuto far altro che rappresentare un elemento di continuità.

 

Si ripete sempre che elezioni politiche e amministrative non si possono sovrapporre, ma anche a livello nazionale il Pd non cresce.

 

Non cresce e non arretra. In questo momento cresce solo la Lega, che guadagna consensi sia dal Movimento 5 Stelle che da Forza Italia, che sta finendo risucchiata nel suo cono d’ombra. Il partito di Salvini va raccogliendo consensi, in sintonia con le aspettative degli elettori rispetto alle promesse elettorali, fondate sul tema della sicurezza e che cavalcano la paura.

 

Il suo partito come pensa di tornare a crescere, invece?

 

Innanzitutto non sottovalutando il fatto che i cittadini sentono la necessità di essere rassicurati. Il Pd però deve essere consapevole che al bisogno di sicurezza sociale si risponde ricostruendo una prospettiva basata sui nostri valori: una società aperta, fondata sul merito e non sull’assistenzialismo, in cui l’eguaglianza sia strumento da praticare e non da chiedere. Da questo punto di vista, l’idea di seguire la destra sul suo terreno è quella che, storicamente, ha più penalizzato la sinistra.

Sia il governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, che l’ex ministro Roberto Calenda hanno prospettato due ipotesi: il primo l’asse coi sindaci e le associazioni; il secondo il fronte repubblicano. Quale le piace?

 

Entrambe le formule mi sembrano scorciatoie. Noi dobbiamo ripartire da linea politica e leadership: da questo punto di vista l’unico esempio cui guardare è quello della Lega, partita dal 4% e ora diventata partito dominante. Questo risultato, però, non è stato ottenuto guardando all’esterno del partito oppure costruendo fronti che suonano come molto politicisti. Le proposte di Zingaretti e Calenda guardano al contenitore e non al contenuto, per questo non mi interessano.

 

Cosa dovrebbe interessare, invece?

 

A me interessa la nostra posizione sui migranti, se siamo un partito garantiste o no, se abbiamo un profilo legato all’investimento e all’innovazione politica, sociale e economica. In una parola, vorrei definire con chiarezza quali sono le proposte con cui andiamo a lavorare tra le persone: personalmente non ho mai smesso di farlo, ma sento molti parlare di periferie, anche se non le hanno mai viste nemmeno col binocolo.

 

Se dovesse esprimere il suo ideale di partito, quale sarebbe?

 

Io credo che dovremmo costruire un’area politica come quella del Partito democratico americano, dove sono contenute posizioni anche diverse, che poi si misurano con le primarie per selezionare la leadership. Alla fine, però, Bernie Sanders ha appoggiato Hillary Clinton, non ha fatto un partito per conto suo come invece è successo da noi. Trovo, invece, un errore l’ossessione per le alleanze con gli esterni o con progetti civici che nascono e muoiono in una stagione.

Dopo la linea, serve una leadership.

 

La scelta del leader si definisce in sintonia con la linea: il Pd ha avuto una leadership forte come quella di Matteo Renzi, che ancora è importante all’interno del partito. Può esserci però anche una leadership legata ad esperienze collettive, con la formazione di un nuovo gruppo dirigente. Il punto decisivo, però, è che per sceglierla serve un nuovo passaggio che coinvolga i nostri elettori.

 

Fermi nome e simbolo, quindi, lei chiede un congresso?

 

Non ho detto questo: voglio un congresso, ma non faccio problemi su nome e simbolo. Per me conta avere chiarezza su ciò che vogliamo fare, se poi decidessimo per un superamento che riguardasse anche il nome o il simbolo, io sarei interessato a valutarlo. Serve un congresso però, perchè il Pd che abbiamo visto in questi mesi non affascina nemmeno il nostro elettorato. Dobbiamo dare una scossa a noi stessi, creare una proposta che interessi e decidere come metterci in campo, evitando le suggestioni di ritorni al passato in favore di alleanze con Leu e gruppi dirigenti dei partiti dei sindaci. La sinistra è una cosa seria e va ricostruita come presenza di popolo, prima ancora che di gruppi dirigenti, perchè questi si possono cambiare se non sono all’altezza.

 

Intanto, però, l’opposizione del Pd è piuttosto opaca.

 

Questo è l’elemento che più mi dispiace: in questi mesi potevamo non solo stare all’opposizione, ma anche fare opposizione. Invece, l’abbiamo fatta solo un giorno, in quel 1 giugno all’indomani della minaccia di impeachment al presidente Sergio Mattarella. In molti si sono stupiti che in piazza fosse venuta tanta gente, io invece ne ero sicuro, perchè il popolo della sinistra c’è se viene chiamato. Ecco, il popolo della sinistra aspetta di essere convocato e noi dobbiamo fare proprio questo.

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