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Gentiloni: l’Europa a due è velocità possibile, ripartiamo dai fondatori

«È giusto discutere di un’Europa a due velocità, anche se non si tratta della definizione migliore, perché opposte visioni devono e possono convivere»: così il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, preannuncia che nel prossimo incontro a Roma fra i colleghi dei sei Paesi fondatori dell’Ue si inizierà a delineare una «visione comune sul futuro dell’Unione». Sono parole che disegnano un possibile sentiero per armonizzare le differenti posizioni di più Paesi membri su temi scottanti come l’immigrazione.

 

Ministro, l’ultima notizia dall’Europa sono i voli speciali svedesi per rimpatriare 80.000 migranti. Che ne pensa?

«I rimpatri devono far parte di un’azione comune europea e non di annunci a effetto».

 

E che impressione le fa la norma danese sul prelievo ai migranti?

«È qualcosa che, sul piano culturale, l’Europa non dovrebbe mai vedere. Come far pagare l’Ici ai senza tetto. E chiunque conosca la drammaticità di queste rotte fa fatica a capire come possa essere applicata: mi sembra una norma manifesto utile più che altro ai fini del consenso interno».

 

Rischiamo la fine di Schengen?

«Spero di no, ma non basta la speranza, qualcosa deve cambiare. Non possiamo proseguire con le regole di Dublino che scaricano sui Paesi di primo arrivo asilo o respingimento dei migranti. Servono un diritto di asilo europeo, un’azione di rimpatrio europea, una polizia di frontiera europea. Senza questo scatto, la conclusione rischia di essere il sacrificio della libera circolazione delle persone».

 

La soluzione alla crisi europea potrebbe essere l’ipotesi di una Europa a due velocità?

«Qualche settimana fa ho scritto un articolo con il ministro degli Esteri inglese: la definizione di Europa a due velocità non è la migliore, ma è giusto discutere di livelli di integrazione diversa. C’è chi, come l’Italia, vuole un’unione bancaria, fiscale e politica crescente. E chi, come il Regno Unito, vuole solo un mercato comune più efficiente. Due visioni che devono e possono convivere».

 

In che modo?

«Cominceremo a parlarne a Roma, in un incontro tra ministri degli Esteri dei sei Paesi fondatori a sessant’anni dai trattati istitutivi».

 

Oggi si incontreranno Renzi e Merkel: cosa dobbiamo aspettarci? Ieri il premier alla «Faz» ha detto chiaramente che la Germania sbaglia a privilegiare il rapporto con la Francia…

«Una cosa è certa: Italia e Germania sono protagonisti della scena europea, hanno differenze sulle regole economiche ma possono lavorare a una visione comune sul futuro dell’Unione».

 

Intanto, in Italia la settimana è stata segnata dalla visita del presidente Rohani. Quali aspettative avete dal rapporto con l’Iran?

«Il significato politico è molto chiaro: la prima visita in Occidente l’ha fatta in Italia non per caso, ma come conseguenza di un rapporto iniziato 60 anni fa e proseguito anche in tempi recenti. Questa primazia non basta in un contesto in cui tutti saranno in competizione per questo mercato, ma l’Italia parte con un piccolo vantaggio».

 

Che paghiamo però arrivando a coprire statue millenarie?

«Quella è stata una sciocchezza incomprensibile».

 

Il rabbino Di Segni ha trovato la visita intollerabile, tanto più nel Giorno della Memoria…

«L’Italia ha celebrato la Giornata della Memoria con tutto l’impegno che merita. La visita di Rohani non c’entra. Certo, capisco la preoccupazione di Israele, la cui sicurezza per noi è cruciale. Ma non condivido il giudizio del governo israeliano sull’accordo nucleare, che penso abbia evitato, e non creato, una minaccia. E i prossimi mesi ci diranno se, come auspico, la diplomazia avrà prodotto i suoi frutti positivi nella regione».

 

Ad esempio nei negoziati sulla Siria? Non sembrano facili…

«L’avvio di oggi, che mi auguro ci sia, sarà davvero molto preliminare. Al massimo, quel che i diplomatici chiamano “negoziati di prossimità”: tradotto, il commissario Onu De Mistura che fa la spola tra due parti che non si incontrano… La strada del negoziato è stretta, e resa più impervia dall’impennata di tensione tra Paesi chiave come Iran e Arabia Saudita, ma non ce n’è un’altra per fronteggiare la più grave crisi umanitaria degli ultimi anni».

 

Impervia è anche la strada per arrivare al governo di unità nazionale in Libia: è fiducioso?

«Anche lì deve essere chiaro, soprattutto alle parti libiche, che non abbiamo alternative. Una nuova proposta di governo sarà presentata entro la settimana prossima. Fondamentale è che le parti libiche credano nel negoziato: senza questa base è difficile anche per la comunità internazionale contribuire a stabilizzare la Libia, perché occorre rispondere a una richiesta del governo libico».

 

Cosa succede se, nonostante gli sforzi, il tentativo fallisce?

«Succede che le parti libiche rinunciano – almeno per una fase che può non essere breve – a ogni speranza di sicurezza e ripresa del controllo sul territorio. Anziché una Libia stabile, avremmo una gigantesca Somalia dall’altra parte del canale di Sicilia. Naturalmente poi se un Paese si sente minacciato ha diritto a difendersi e può decidere di contrastare Daesh nelle forme che la comunità internazionale condivide».

 

Da giorni si parla di un intervento militare. Ieri il ministro Pinotti ha detto che non si può far passare la primavera in questo stallo, precisando però che non ci saranno accelerazioni né azioni unilaterali. Ci spiega meglio?

«Lavoriamo a far nascere un governo libico e a rispondere alle sue richieste, anche sul piano della sicurezza. Oggi non ci sono piani B basati su interventi stranieri, se non l’ovvio diritto-dovere di difendersi dal terrorismo».

 

Un’ultima domanda: come sta andando il dossier Russia? C’è possibilità di abolire le sanzioni?

«Se a giugno valuteremo che lo stato dell’attuazione degli accordi di Minsk è sufficiente, saremo ben lieti di abolirle o almeno ridurle. Ma al momento la valutazione è prematura».

 

Fonte: La Stampa

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