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Zavoli, Veltroni: “La voce che raccontò l’Italia di tutti”

La voce come una lanterna senza mai il dito alzato. Con una lingua priva di slogan è stato uno dei liberatori del Paese.

 

Da dove cominciare, ricordando Sergio Zavoli? Dalla sua voce, forse. O dalla sapienza con cui selezionava, scartava, disponeva le parole che utilizzava. O dalla fermezza con cui chiedeva agli altri conto delle loro scelte. O, ancora, dalla sua curiosità intellettuale, quella che lo portava a non alzare il sopracciglio se doveva salire su una motocicletta per intervistare la «maglia nera» del Giro d’Italia o portare il suo microfono, primo a farlo, in un convento di clausura per ascoltare la voce di chi, della fede, aveva fatto la scelta più radicale.

È stato un grande giornalista, Sergio. Un immenso giornalista.

Non doveva alzare né il tono della voce né il dito accusatore. Gli bastava usare la ragione e il dubbio per smascherare le furbizie o le bugie. A lui si devono due capolavori di storia televisiva: Nascita di una dittatura e La notte della Repubblica.

Le interviste di Zavoli ai protagonisti di quei momenti decisivi della nostra vicenda nazionale avvenivano sempre con la voce fuori campo. Ma quella voce era una lanterna, capace di guidare il cammino e di rischiarare il buio. Nella grande inchiesta sul terrorismo degli anni Settanta Sergio calava i protagonisti in una dimensione quasi teatrale: il buio nello studio, un occhio di bue – la luce puntata – solo sull’intervistato. Che improvvisamente si trovava al cospetto di sé stesso. Solo, con la storia che stava raccontando.

 

Ricordo uno degli autori della strage di Via Fani chiedere di fermare le riprese per lo stress emotivo. Quella voce, quel buio, quella solitudine rendevano ogni testimonianza una confessione. E nell’indagine sul fascismo Zavoli ascoltò i protagonisti• mettendoli seduti su un piedistallo e inquadrandoli in un modo rivoluzionario per il tempo, lasciandoci un documento che ancora emoziona e colpisce. Sergio non era fazioso, perché era curioso. Sergio non era cinico, perché aveva dei valori. E sulla base di queste due architravi, cercava le verità possibili della storia.

 

Aveva iniziato la sua carriera in Rai perché un funzionario, di passaggio a Rimini, aveva sentito il suo racconto del derby con il Ravenna dagli amplificatori installati sulla piazza a beneficio dei tifosi della squadra di calcio locale. Siamo nel primo dopoguerra e l’Italia piccola e liberata, piena di energia e di sole, ritrovava i riti del vivere cancellati dai bombardamenti di una guerra scellerata.

Quel funzionario rimase colpito dalla proprietà di linguaggio di quel ragazzo che aveva il velluto nella voce. E chiamò mio padre, allora capo delle radiocronache. Sergio fu raggiunto da un telegramma di Vittorio Veltroni e scese a Roma. Cominciò così la sua storia, che finirà con l’identificarsi con quella azienda il cui acronimo, tre lettere, era stampato sulla tuta avana che Sergio non si vergognava di indossare con orgoglio in giro per le strade di quell’Italia che conosceva più polvere che asfalto. Zavoli crebbe insieme a una generazione di giornalisti eccezionali.

 

Ogni parola, ogni frase dei loro racconti era sezionata e discussa. Si pensava, dopo aver vissuto la riduzione delle parole a slogan per venti anni, che la lingua fosse libertà. E Sergio è stato, dunque, un grande liberatore dell’Italia. Chi ha lavorato sotto la sua direzione, al giornale radio o a Il Mattino, sa quanta cura maniacale mettesse nelle scelte giornalistiche e culturali.

Ora che si sentono urla dissennate al posto dei racconti e dilagano i portatori di certezze di cartapesta in luogo degli esploratori capaci di ascoltare, di Sergio, della sua grazia, della sua meravigliosa e profonda leggerezza si sente una grande mancanza. Nelle scuole di giornalismo bisognerebbe che le sue inchieste, le sue trasmissioni fossero studiate con cura. Ma non si può parlare di Sergio senza guardare, oltre ai suoi occhi, le sue radici ben piantate nella Romagna poetica e surrealista di Fellini, di Tonino Guerra, di Alberto Su- Con Federico Fellini ebbe un rapporto speciale, unico.

 

Parole, sogni, divertimenti, amarezze consumate in quella Rimini piena di suggestioni e struggenti fantasmi. Anche la Rai riservò amarezze a Sergio, che però non ha mai smesso di amarla. Ne era diventato presidente ma poi quella storia d’amore si interruppe. Sergio ha pubblicato dei libri di poesie molto belli, da ultimo. Nel leggerle si sentiva la sua voce. Quella voce che sua moglie Alessandra e sua figlia Valentina hanno potuto ascoltare e vivere con un amore senza confini. Io gli chiesi, quando avevo responsabilità politiche, di diventare senatore della Repubblica. Senatore della sua Rimini. Lui è stato, i suoi colleghi potranno confermarlo, un rappresentante del popolo autorevole, presente, impegnato. Alla fine del suo mandato si fece carico di curare la biblioteca dell’istituzione che aveva servito. Lo fece con la stessa passione con la quale intervistava i ciclisti Taccone o De Rosso durante il Processo alla tappa.

 

Sergio Zavoli era un uomo vivo, animato dalla voglia di capire e cambiare il mondo. Perché anche le parole, quelle buone, sincere, ben scelte, hanno il potere di cambiare il mondo.

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