Tra gli ultimi capitoli dell’ormai molto aspra contesa referendaria c’è quello che riguarda il voto degli italiani all’estero, corteggiato da entrambi gli schieramenti e risultato decisivo per la vittoria di Romano Prodi nel 2006. Il comitato del No ha giocato d’anticipo: «Se vincerà il Sì e gli italiani all’estero saranno determinanti faremo ricorso» ha affermato il costituzionalista Alessandro Pace.
Il motivo risiederebbe in presunti brogli dovuti alla mancata garanzia dei requisiti di sicurezza e segretezza nelle procedure di voto fuori dal suolo patrio. Al di là dell’intermittenza dell’argomentazione – se vince il No i brogli scompaiono – il sottinteso è che quella categoria, vivendo fuori dall’Italia, sia meno interessata alla riforma e più permeabile a pressioni governative.
Tanto che il ministro Gentiloni ha dovuto difenderli da «denigrazioni»: «Non sono di serie B né potenziali imbroglioni. Ambasciate e consolati applicheranno la legge in modo imparziale». Secondo alcune stime quel bacino di voto potenziale riguarda il 5-6% dell’elettorato. Ma chi sono, alla fine, gli italiani all’estero? Anziani provenienti da famiglie emigrate nel Dopoguerra se non prima? I loro nipoti che prendono la cittadinanza italiana sulla base di legami nostalgici e affievoliti? Cervelli in fuga sfiancati da burocrazia e mancanza di prospettive? Studenti che si fermano altrove dopo l’Erasmus, un master o un corso di specializzazione?
Uno studio del Pd -redatto dal responsabile Dem del settore Eugenio Marino e dal responsabile dell’ufficio elettorale Francesco Davanzo – evidenzia le variazioni nella composizione di questo gruppo negli ultimi 5 anni. Basandosi sulle iscrizioni all’Aire (l’anagrafe dei nostri connazionali residenti all’estero che include chi espatria per oltre un anno come chi è nato fuori), si nota che quella categoria è aumentata di un quinto.
Al referendum sulla carta potranno votare 4.112.435 persone, il 22% in più dei 3.380.051 del 2011. Ce ne sono circa 735mila nuovi. Tra questi, due terzi sono nativi esteri (500mila, di cui molti in America Latina e il 25% under 40), mentre un terzo (vale a dire 235.392 elettori, di cui il 7% giovani) è migrato all’estero nel recente quinquennio. Qui altro dato è la provenienza non più tanto dal Mezzogiorno quanto principalmente dalle regioni del Centro-Nord.
Per quanto riguarda le destinazioni, sono soprattutto europee con punte forti nel Regno Unito (pre Brexit però), in Spagna e nei Paesi Bassi. Sul tema, il dossier conclude che mentre le comunità di italiani in Sudamerica, stratificatesi grazie a ondate migratorie del passato, tendono a stabilizzarsi, i giovani lavoratori e professionisti di oggi puntano mercati vicini ma più vitali e dinamici dell’Italia.
Una «rete» per il welfare futuro
Analizzando le fasce di età si nota invece che nel 2011 oltre il 55% degli iscritti era over 50 e solo il 9% era compreso nella fascia 18-39 anni. Adesso, il peso di entrambe queste fasce si è contatto a meno del 47% complessivo, mentre gli under 40 raddoppiano arrivando al 17%. Qui il maggiore incremento al ringiovanimento arriva dai nativi esteri che hanno acquisito la cittadinanza italiana – oltre 300mila – ma gli “espatriati” sono più che triplicati passando da 36mila a 127mila.
Infine, per quanto riguarda il sesso, l’incremento è equamente diviso tra uomini e donne con mezzo punto in più per queste ultime: 369.512 versus 362.872. Il rapporto conclude con alcune riflessioni: «L’Italia rischia l’invecchiamento della popolazione, con ciò che comporta in termini di perdita di competitività economica, dinamicità intellettuale e capacità di mettersi in gioco». Mentre, viceversa, avrebbe bisogno di «più giovani che rappresentano forza lavoro, fanno crescere l’economia, pagano pensioni e welfare a chi invecchia». Descrizione che corrisponde ai ragazzi trasferitisi in Paesi che possono «accoglierli con un lavoro e integrarli socialmente».
Ma anche, secondo i due esponenti del Pd, agli «italo discendenti», cioè i figli di italiani nati all’estero da molte generazioni che sono attratti dall’Italia per ragioni affettive, culturali e turistiche ma non rimpatriano perché il sistema non è economicamente attraente». La conclusione, a questo punto, è evidente: esiste un nutrito gruppo di “italiani in fuga”e di “nativi esteri”che potrebbero tornare italiani a tutto tondo purché «il sistema-Paese riesca ad attrarli». Tuttavia, anche tenerli «in rete» in attesa di tempi migliori è importante: «La loro partecipazione al voto non è frutto di brogli bensì del loro vincolo con il Paese d’origine». È insomma «un atto positivo e progressista» di cui, auspicabilmente, «vedremo i frutti tra trent’anni» .