Da sempre Liberazione vuol dire festa di piazza, nel segno di ciò che accadde in tanti paesi e città d’Italia e di ciò che avvenne per le strade di Milano, quando il 25 aprile 1945 sfilarono formazioni partigiane, uomini e donne che avevano retto il peso della lotta, e cittadini che a lungo avevano patito le privazioni della guerra, per celebrare la riconquistata libertà di un’intera nazione.
In quel gesto di popolo vi era certo il segno di una volontà che reclamava una presenza pubblica, ma al tempo stesso dobbiamo scorgervi anche il desiderio di un’intera moltitudine a riaffermare un’idea di libertà che proprio delle piazze ha bisogno, perché in esse individuava il luogo ideale per far deflagrare la gioia di quel momento.
Celebrando questo 25 aprile, che in più segna il passaggio simbolico del 75°, non potevamo non ricordare che di piazze e cortei dovremo stavolta privarci, come dovremo rinunciare all’abbraccio reale con gli ultimi testimoni della lotta per la libertà, ai gonfaloni comunali accostati a quelli delle associazioni partigiane a riconoscimento di quella storia, alla gioia di ritrovarci all’aperto.
Proprio in tale atteggiamento, insieme all’attaccamento a precisi valori, si riscontra il segno che fa di questa giornata una ricorrenza diversa dalle altre.
Sicuramente troveremo alternative efficaci: daremo impulso a una intensa circolazione di pensieri e riflessioni a partire dagli appelli lanciati da Carlo Petrini e Gad Lerner, dall’ANPI; la comunicazione sarà invasa da canti, bandiere, musiche e immagini; mille motivi legheranno quel giorno lontano al nostro presente così incerto e inquieto; troveremo conforto nell’uso della rete.
Ma dobbiamo riconoscere che stavolta ognuno di noi, consapevole di una storia così viva, si sentirà mutilato da un’assenza e costretto in uno spazio ancor più angusto di quello in cui da settimane siamo confinati: e proprio in questa mancanza va riaffermata la tradizione da cui veniamo. Dalla coscienza di questa privazione, acquisterà poi maggiore significato l’emergenza che viviamo, e ancora più forte ci sembrerà il sacrificio del nostro Paese, come ancora più grati saremo a chi combatte e resiste in prima linea per contrastare un nemico inedito e terribile.
Un altro dato rimanda ai giorni che segnarono la fine della guerra e della dittatura: gli uomini e le donne che si riversarono nelle piazze, infatti, immaginavano che proprio da quei luoghi, nell’immediato futuro che li attendeva, il confronto tra le rinate forze politiche sarebbe ripartito insieme a una pratica della democrazia che, per affermarsi compiutamente, avrebbe richiesto – con la ripresa del lavoro, la ricostruzione delle infrastrutture, la rinascita delle istituzioni – una partecipazione nuova e attiva alla vita della nazione: “furono anni in cui molti divennero diversi da ciò che erano stati prima. Ognuno sentiva di dover dare il meglio di sé, e quando ricordiamo quegli anni, ricordiamo [anche] il benessere, insieme ai disagi, al freddo, alla fame e alla paura”.
Così Natalia Ginzburg descrive il clima delle stagioni della Resistenza e del primo dopoguerra. Se la lotta partigiana fu soprattutto storia di giovani, per chiunque vi prese parte si trattò di un’indimenticabile esperienza: giorni e mesi che valevano anni, capaci di scavare nelle esistenze un prima e un dopo.
E fu proprio nella consapevolezza di “dover dare il meglio di sé” che si espresse il senso ultimo di quel tempo tragico e luminoso. Forse è improponibile un parallelismo fra le difficoltà che gli italiani affrontarono allora e le pur pesanti limitazioni di questi giorni.
Tuttavia c’è una suggestione di quel tempo lontano che può ancora richiamarci ad un impegno concreto, che può spingerci a pensare un futuro differente, immaginando un esito che non si accontenti della vita di prima, rivolgendosi proprio a quella volontà di “essere migliori” che sostiene ogni visione utopica e, vorremmo dire, dovrebbe informare ogni agire politico.
Di nuovo abbiamo bisogno di esempi virtuosi: pensiamo ai giovani partigiani come Giacomo Ulivi, che nella sua lettera agli amici, prima della fucilazione, ribadiva proprio l’urgenza di riconquistare gli individui alla vita politica, insieme alla necessità di “rifare tutto”, dai ponti alle strade alle ferrovie.
Un tempo ormai troppo lungo forse ci ha resi meno sensibili, allontanandoci dall’agire insieme, politicamente e consapevolmente, per ricongiungere – come ammoniva Pasolini – “la vita stessa, nella pienezza che questa raggiunge attuandosi nei singoli individui”.
Il 25 aprile questa volta può essere l’occasione adatta per riprendere a pensare (e ad agire) utopisticamente, progettando insieme un futuro che abiti l’eutopìa, cioè un “buon luogo”, diverso e migliore.