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Una PA incentrata sul bisogno, non sulle convenienze

Pubblichiamo di seguito la risposta di Stefania Bonaldi – responsabile P.A, Professioni e Innovazione nella Segreteria Nazionale del Partito Democratico – all’articolo di Sabino Cassese pubblicato sul Corriere della Sera giovedì 18 gennaio.

Caro Professore, difficile ignorare l’articolo “Se nella burocrazia si premia la fedeltà”, pubblicato a Sua firma sul Corriere di giovedì 18 gennaio. Una riflessione di sana pedagogia istituzionale rispetto alla quale vorrei potere interloquire con Lei. Faccio parte, pur non sedendo in Parlamento, di quell’opposizione che va “a caccia di farfalle”, come lei chiosa. Sarebbe meglio dire “andava”, perché, anche grazie agli stimoli come il suo, abbiamo cambiato registro, in modo profondo. Una delle scelte della nuova Segreteria nazionale del Partito Democratico è consistita proprio nel dare immediata centralità, in quanto motore di ogni progetto politico riformatore, proprio a quella Pubblica Amministrazione che Le sta a cuore, che ci sta a cuore.

Apprezzerà sapere che abbiamo evitato esternazioni estemporanee, scegliendo la strada dello studio, in questi mesi abbiamo trascorso un numero importante di giornate in approfondimenti qualificati, coinvolgendo esperti e protagonisti delle Pubbliche Amministrazioni. Forse avremmo dovuto dare pubblicità a questo sforzo, abbiamo pensato che non ci sarà nessuna riforma se non vi sarà quella più grande, ossia il metodo di lavoro dei riformatori. Volutamente uso il plurale, perché una delle prime prese d’atto, che dovrebbe essere scontata, è che non esiste una P.A. semmai vi è una galassia di PP.AA. che spaziano dalla Pubblica Istruzione alla Sanità Pubblica alle Forze dell’Ordine, dalle Funzioni Centrali dei Ministeri e degli Enti Nazionali alle Autonomie Locali (Comuni, Province e Regioni), in un contesto disomogeneo nel quale è complicato immaginare risposte generali. Un equivoco, ma anche un grande limite, pensare che le regole per i dipendenti dei Ministeri debbano valere ad esempio, anche per quelli dei Comuni. Certo, la Pubblica Amministrazione è un coro, ma trovare voci dello stesso colore è difficile. Occorre tenerne conto, perché si tratta di strumenti di servizio, pinze specializzate che devono afferrare oggetti dissimili.

Si ritenga dunque già invitato ad un nostro prossimo appuntamento, in cui esporremo le nostre prime elaborazioni. Abbiamo ancora da fare un’infinità di strada, ma vogliamo percorrerla senza distrarci neppure un secondo e ci prenderemo il tempo necessario.
Precisato quanto sopra, La ringrazio molto per questo articolo che accende un faro su una procedura, non nuova per la verità, ma pure da condannare e mai come con questo Governo così radicale, estesa e sistematica, di occupazione del potere, ben oltre le regole democratiche. Ma di questo eravamo certi, la democrazia si fa con la democrazia e con attori in grado di giocare con le sue regole. Ci vuole un retroterra, una storia. Non la si può inventare. Si tratti di Pubblica Amministrazione o di Servizio televisivo pubblico, di Aziende a partecipazione pubblica o di Istituzioni culturali, ciò che emerge, e nella sua riflessione Lei lo ravvisa in modo netto, è un Parlamento sempre più marginalizzato ed esautorato delle prerogative che costituzionalmente ad esso competono. A tale proposito mi chiedo, Professore, come Lei riesca a conciliare la sua critica, motivata e argomentata, con l’indulgenza che invece riserva alla riforma detta del “Premierato”, che rafforza la figura del Presidente del Consiglio senza prevedere contrappesi per il ruolo del Parlamento e quello del Presidente della Repubblica, come andiamo dicendo noi e come dicono insigni studiosi. Una riforma rischiosa, dunque, che può diventare addirittura pericolosa quando gli ingredienti umani e politici non sono di assoluta eccellenza.

Ma veniamo al punto. La questione della “dirigenza pubblica” è centrale, perché alla fine occorre un ponte solidissimo tra il legislatore e i cittadini, ma vi sono degli assunti dai quali fuggire. Da un lato, l’ingenua – quando non clientelare e familistica – convinzione che basti collocare persone “fedeli” nei ruoli amministrativi perché la macchina “giri a dovere”. Dall’altro, la pretesa, altrettanto ingenua, che l’organizzazione amministrativa e le funzioni dirigenziali, radicate e consolidate nel tempo, possano essere buone per ogni programma di governo. Se ci pensa, si tratta di due vizi complementari, figli di due storie politiche, entrambe negative. La cristallizzazione delle strutture amministrative è l’eredità storica di una politica pigra e abitudinaria, mentre l’occupazione estemporanea attraverso i “fedeli”, talora addirittura pescati nelle fila di massima prossimità, fra amici e parenti, è figlia di una malintesa idea dell’alternanza bipolare alla guida del governo, per cui chi vince dovrebbe necessariamente smontare tutto ciò che ha fatto il governo che lo ha preceduto e ripartire da zero. Lo “spoil system all’Italiana” è ciò che di più grottesco, e tossico, sia stato partorito dalla cosiddetta Seconda Repubblica, perché non è quasi mai “centrato sul bisogno”, ma sulle convenienze di chi comanda. Un male assoluto.

Le Pubbliche Amministrazioni, quella statale, in particolare, necessitano di stabilità, che non può significare immutabilità del modello organizzativo o delle figure che sono chiamate a ricoprirne i ruoli apicali, mentre deve voler dire chiarezza nelle regole di reclutamento e di selezione, da rivedere, nella temporaneità dei ruoli, nella ferrea limitazione nel ricorso alle “figure di staff”. Ma ancora di più richiede regole chiare -auspicabilmente aggiornate – sui temi strategici della formazione (oggi ancora sottovaluta, anzi ignorata, che può essere strettamente legata anche alla procedura di selezione, come già avviene con le modalità dei c.d. “corsi-concorso”), sui sistemi di rendicontazione e di valutazione dei risultati e sulle conseguenti premialità accessorie.

Più sono i “fedeli” più si verificherà che tutti raggiungeranno, per definizione e a prescindere, il massimo degli obiettivi e dei relativi riconoscimenti in termini di salario accessorio, contribuendo ad aumentare quel “senso del ridicolo” che aleggia poi quando nella Pubblica Amministrazione si introduce – e doverosamente – il tema del merito. Il merito, per sua natura, sfugge al controllo del potere; dunque, è pericoloso.
Forse, caro Professore, sulla questione della dirigenza pubblica c’è materia per un riordino complessivo, che superi gli interventi parziali e pure i tentativi meritori di riforma che si sono succeduti negli anni e che sono rimasti inespressi nella loro attuazione.

La ringrazio per questo ennesimo e prezioso stimolo,
Stefania Bonaldi

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