Di Antonio Misiani
Il dibattito in Senato sul disegno di legge di bilancio – approvato in prima lettura – non ha cambiato il nostro giudizio sulla manovra; semmai lo ha peggiorato. Quella che il Senato ha votato è una legge di bilancio decisamente fragile, perché basata su previsioni di crescita largamente sovrastimate e perché finanziata per due terzi a deficit.
È una manovra di corto respiro, perché quasi tutte le misure più significative sono finanziate solo per il 2024. Vale solo per il 2024 la proroga del taglio del cuneo contributivo; vale solo per il 2024 – ed è un fatto assolutamente inedito – quella che il governo ha chiamato “riforma IRPEF”, ma che in realtà è un intervento complessivamente modesto e transitorio. Vale solo per il 2024 persino l’intervento sul canone Rai, piuttosto che quello sul welfare aziendale. Non c’è un euro dal 2025 in avanti.
In compenso, c’è una pesantissima ipoteca sul futuro, con oltre 15 miliardi di euro che dovranno essere trovati, dal 2025 in avanti, per confermare queste misure. È una manovra iniqua, innanzitutto per quello che è stato fatto sulla sanità. È surreale la teorizzazione della maggioranza che l’intervento sulla sanità vada giudicato sul valore assoluto delle risorse stanziate. In tutto il mondo le organizzazioni internazionali valutano il rapporto spesa sanitaria-PIL per dare un giudizio se sia adeguato o meno il finanziamento a un sistema sanitario pubblico. E il rapporto spesa sanitaria-PIL, nel triennio di programmazione, scenderà a un livello inferiore a quello del 2019, che era ritenuto insufficiente da molti osservatori.
Il governo ha dimenticato le lezioni della pandemia e la sanità pubblica è sottofinanziata da una legge di bilancio che apposta poco più delle risorse che servono per il rinnovo del contratto di lavoro, ma non quello che serve per le liste d’attesa, per assumere i medici e gli infermieri che mancano, per garantire il servizio universalistico scritto nella Costituzione.
Non c’è un euro sulle politiche per la casa e non c’è un euro sul trasporto pubblico. Ci sono in compenso tagli alle pensioni, perché dal 2024 sarà più difficile andare in pensione con Opzione donna, con APE sociale, per chi è interamente nel sistema contributivo. Rimane, pur con qualche modifica, il taglio probabilmente incostituzionale alle future pensioni di oltre 700.000 dipendenti pubblici.
Dulcis in fundo – si fa per dire – l’intervento sull’IVA. Il ministro Giorgetti ci ha raccontato che era necessario riportare dal 5 al 10 per cento l’IVA sui prodotti per l’igiene femminile e per l’infanzia (a proposito di Governo amico della famiglia…); ma poi, in sede emendativa, la maggioranza ha abbassato l’IVA sugli integratori alimentari e ha esentato dall’IVA la chirurgia estetica. Evidentemente per loro è più importante la chirurgia estetica dei prodotti per le famiglie e dei prodotti per l’igiene femminile.
Questa legge di bilancio si basa su un piano di privatizzazioni da 21 miliardi di euro, una cifra insignificante per ridurre il debito (equivale allo 0,7 per cento di un debito pubblico che si avvia verso i 2.900 miliardi di euro), ma in compenso rischia di indebolire fortemente il ruolo dello Stato nelle politiche industriali, proprio quando ci sarebbe invece bisogno di una presenza pubblica forte. Basta guardare a quello che è accaduto l’altro giorno sulla ex ILVA, un fatto imbarazzante e sconcertante: all’incontro con le organizzazioni sindacali si sono presentati quattro ministri per decidere di non decidere, per l’ennesima volta, sul futuro di una realtà essenziale per la siderurgia ed essenziale per la vita di migliaia di famiglie che dipendono da quei posti di lavoro.
Questa è una manovra di stagnazione e di austerità ed è una manovra che non rilancerà la crescita di questo Paese. Basta leggere i dati pubblicati il 15 dicembre da Banca d’Italia, che ha previsto per il 2024 una crescita dello 0,6 per cento, esattamente la metà di quello che il governo ha programma nella Nota di aggiornamento al DEF. Ed è una crescita, quella stimata dalla Banca d’Italia, che incorpora gli effetti manovra di bilancio. Non potrebbe che essere così, di fronte ad una legge bilancio che destina agli investimenti privati le briciole e che concentra le poche risorse per gli investimenti pubblici su un unico e assai discusso progetto: il Ponte sullo Stretto di Messina.
Una manovra di stagnazione, insomma, e l’antipasto dell’austerità verso cui la destra sta indirizzando il Paese.
Il Governo ha perso la partita sul nuovo Patto di stabilità e crescita. Questo è il risultato vero del negoziato che si è concluso all’Ecofin in videoconferenza, la stessa videoconferenza che secondo il ministro Giorgetti non doveva portare ad una decisione finale. La destra nei mesi scorsi ha attaccato a testa bassa il commissario Gentiloni, che aveva lavorato ad una proposta che era un punto di avanzamento vero rispetto al vecchio Patto di stabilità. Gentiloni è stato attaccato e accusato di essere contro il nostro Paese, ma la presidente Meloni e il ministro Giorgetti hanno avallato e accettato a testa bassa un accordo che è molto peggio della proposta della Commissione. Nell’accordo dell’Ecofin entrano regole automatiche, pro-cicliche e vincolanti di riduzione annuale del deficit e del debito che non c’erano nella proposta della Commissione.
Per mesi Meloni e Giorgetti hanno chiesto una “golden rule”, una regola aurea sugli investimenti per l’economia verde, per il digitale e per la difesa. Non c’è traccia della golden rule nell’accordo che è stato avallato dal governo. Un accordo che, di fatto, è esattamente lo stesso che si profilava nei giorni scorsi, quando – è sempre bene rinfrescare la memoria a chi l’ha corta – Giorgia Meloni evocava il veto e molti esponenti della destra chiedevano il rinvio a gennaio. Non c’è stato alcun rinvio né tantomeno un veto. Francia e Germania hanno deciso anche per noi e il governo Meloni si è accodato.
La destra si è accodata sulla cosa più importante, il Patto di stabilità e crescita, mentre si è divisa e ha bocciato, in modo incredibile e indecoroso, un atto significativo, ma certamente di portata ben diversa rispetto al Patto di stabilità: la ratifica del trattato che modifica il Meccanismo Europeo di Stabilità (il MES). Quanto è accaduto alla Camera, con il voto contrario di Fratelli d’Italia e della Lega alla ratifica del trattato e l’astensione di Forza Italia, dà il segno dello stato confusionale in cui versa la maggioranza, che fa la voce grossa sul terreno sbagliato (il MES), mentre accetta supinamente accordi penalizzanti per il nostro Paese (il nuovo Patto di stabilità e crescita). Il governo italiano a Bruxelles avrebbe dovuto fare sin dall’inizio fronte comune con Francia e Spagna, che condividevano le nostre preoccupazioni e la nostra visione, sulle regole di bilancio europee: non l’ha fatto per ragioni politiche, perché in Francia Salvini sta con la Le Pen e in Spagna la Meloni sostiene Abascal.
Il risultato è che l’Italia si è ritrovata da sola sia sul Patto di stabilità che sul MES, con il triste e sconcertante spettacolo che è sotto gli occhi di tutti. Questo è il quadro: è un quadro molto negativo per l’Italia, sia sulla manovra di bilancio che per l’incapacità del governo di destra di incidere sulle scelte strategiche europee.