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Serracchiani: “Il PD è l’argine al populismo, ora diciamo che Paese vogliamo”

Debora Serracchiani, già presidente del Friuli-Venezia Giulia, parlamentare, è oggi, assieme ad Anna Ascani, vice presidente del Partito democratico. La nostra conversazione sul futuro della sinistra e dei progressisti, parte dal voto che ha cambiato il volto dell’America.

Che significato assume la vittoria di Biden vista dall’Italia?

Gli Stati Uniti sono una realtà molto più diversa dall’Italia di quanto non appaia, con forze in campo incommensurabili. Eviterei parallelismi facili ed entusiasmi fuori luogo. Intanto la vittoria di Biden ha un significato globale perché sposta gli Usa da una traiettoria di crescente conflittualità, interna e con il resto del mondo, di isolazionismo controproducente per gli interessi del nostro Paese e dell’Europa, di indebolimento della partnership atlantica.

Trump è stato fautore di una condizione di tensione, ricercata e fomentata dai populisti e dai nazionalisti: una politica che dà i suoi frutti ma che di solito non finisce bene, ricordiamolo.

C’è una lezione di carattere generale che possiamo far nostra dalla campagna di Biden e dalla sua vittoria. Le modalità dell’azione politica non possono essere, ancora e sempre, un problema primario rispetto alla necessità impellente di avere obiettivi ideali capaci di cambiare la vita delle persone, di farli capire, di trasmetterli e di aggregare attorno ad essi consenso ed entusiasmo.

Biden ha dato corpo a una proposta politica e sociale concreta e attuale, e al tempo stesso proiettata nel futuro.

Una lezione anche per il Pd?

Penso che dovremmo riuscire anche noi a dire agli italiani non solo cosa il Pd può fare per loro, ma anche cosa gli italiani possono avere l’ambizione di diventare. Una postilla: le mascherine pro-Trump di Salvini sono state uno degli effetti più ridicoli della campagna elettorale Usa, non foss’altro perché negli States sanno benissimo chi sono gli amici della Lega, per esempio quei russi che si sono annessi la Crimea e armano i secessionisti ucraini. Per tacer di Savoini.

Dalla lezione americana allo stato di salute dem. Massimo D’Alema, nell’intervista concessa a Il Riformista, ha sostenuto che il fallimento di questa esperienza è perché la sua ispirazione originaria era sbagliata. E un giudizio altrettanto tranchant l’ha dato Arturo Parisi, che del Partito democratico, 13 anni fa, fu uno dei “soci” fondatori.

Non si fatica a mettere assieme una folta ed eterogenea brigata, quando si tratta di andare a suonare la campana a morto al Pd, con tutte le varianti che conosciamo da “è nato male” a “è fallito” a “si autosciolga”. È una comitiva formata da persone che hanno lunga esperienza politica, vaste letture, decennali frequentazioni di primo livello: senza esitazione dico che hanno il mio rispetto e la mia attenzione, perché mi pongono in primo luogo il problema del senso del mio lavoro quotidiano.

L’analisi di Massimo D’Alema non si liquida con una battuta. Il Pd è stato da subito l’orizzonte all’interno del quale si sono strutturate la mia visione politica e la prassi amministrativa e legislativa. Quando è nato, il partito democratico è sembrato a molti giovani qualcosa di veramente nuovo, quello che mancava per potersi riconoscere in un progetto e in un impegno politico progressista e riformatore, non necessariamente solo erede di antiche e nobili storie.

A distanza di anni, credo di poter dire che le istanze più sincere di un gruppo di giovani definiti in toto e molto infelicemente “rottamatori” riguardavano, oltre la contendibilità della dirigenza, anche e soprattutto lo “stare al mondo” di quello che a tutti gli effetti veniva percepito e voluto come un ‘partito nuovo”, capace di accogliere gli impulsi di una società che si muoveva più rapida della politica. Sappiamo com’è andata.

Il cambiamento ha preso le redini del partito e ha cominciato una volata sempre più veloce e solitaria: un giorno ci siamo voltati indietro e ci siamo accorti che l’Italia non ci seguiva più.

Gianni Cuperlo, presidente della Fondazione Pd, ha affermato in una intervista concessa a questo giornale, cito testualmente: «Per alcuni il Pd è nato tardi, per altri troppo presto. Io la penso come il mio amico Provenzano, più semplicemente è nato male». E una lettura troppo impietosa?

Il medico pietoso uccide il malato. Un po’ di critica severa non fa male, a patto che non sia l’emulazione di quegli esercizi d’autocritica che si consumano all’interno di uno stesso sistema di pensiero e spesso terminano con l’autoassoluzione. Presto o tardi, bene o male, il Pd é nato. Credo sia divenuto pienamente adulto proprio in quel momento, quando abbiamo toccato la durezza della sconfitta nel 2018.

Allora abbiamo avuto tra le mani la certezza che il Pd non era una costruzione artificiale di alchimisti della politica o un treno di passaggio su cui si erano accomodati destini personali.

Stretti fra le onde apparentemente inarrestabili di due populismi, al Pd è toccato il compito di essere custode pressoché solitario di un patrimonio di valori e conquiste sotto attacco.

La dignità delle Istituzioni repubblicane, la democrazia rappresentativa, l’Europa, l’Occidente come riferimento di diritti… Su pilastri come questi non abbiamo mai mollato. Certo, perché sono inscritte nel Dna delle grandi tradizioni, ma anche perché oggi quei valori sono essi direttamente parte del Pd, senza mediazioni. E siccome un partito costruisce il senso della sua esistenza lungo il cammino, con le scelte che fa, e non solo perché può esibire un atto di nascita impeccabile, credo che non dobbiamo più stare troppo a spiegare perché esistiamo.

Che cosa bisogna fare allora?

Piuttosto, dobbiamo dare motivazioni più forti alle nostre scelte e avere parole più chiare per spiegarle. Sinceramente, non possiamo continuare a dibattere se dai semi dell’Ulivo doveva nascere qualcosa di diverso. E nemmeno esaurirci sulla “forma partito”, sulle primarie, sulle tessere o sull’organizzazione.

Questioni importanti, sicuramente, ma che non possono sostituire l’enorme interrogativo sul rapporto e la permeabilità tra un soggetto politico strutturato e la società nel suo complesso.

Perché, se vogliamo, questo è precisamente il punto in cui lo snodo mostra di funzionare male. Qui constatiamo l’effetto congiunto di diversi agenti: del progressivo e generale discredito da cui è stata investita la politica, di una “sprofessionalizzazione” della classe dirigente. di uno scollamento tra dirigenza nazionale e presidi territoriali, di un ritardo nella comprensione capillare che militanza tradizionale e new media non sono in contraddizione.

Su tutto aleggia il fantasma della formazione. Il Pd, se vuole, sa che cos’è e qual è la sua visione del mondo. Per fortuna non ha un’ideologia, una parola che per me rimanda ancora alla legittimazione di un sistema esistente, più che al compito di costruire un futuro diverso dal presente attraverso il consenso.

Questa discussione si cala dentro una situazione drammatica che vive non solo l’Italia ma l’intero pianeta, alle prese con una crisi pandemica tutt’altro che risolta. Il Pd, che del Governo Conte II è uno dei pilastri, può accettare che salute e libertà siano visti come due diritti tra di loro inconciliabili?

Dall’inizio di questa pandemia abbiamo visto paurose oscillazioni nella gestione sanitaria da parte di varie autorità nazionali nel mondo. Ricordiamo le folli teorie iniziali sull’immunità di gregge di Boris Johnson e guardiamo oggi alla Gran Bretagna in lockdown con contagi al galoppo.

La rincorsa del consenso immediato ha fatto perdere di vista l’inevitabile impatto a lungo termine di una pandemia fuori controllo. Che è poi il discrimine su cui si gioca anche in Italia il rimpallo tra “governatori” e Stato centrale, oppure l’alternativa da sciacalli tra “morire di Covid” o “morire di fame” ripetuta da chi fomenta le piazze. tralasciando di spiegare che ti salvi dalla fame solo se fermi il Covid. In questa emergenza il Governo Conte poteva fare di più, prima e meglio, su tante cose.

Lo dico dal mio osservatorio della commissione Lavoro della Camera, ripensando soprattutto alla prima fase quando per rassicurare chi era colpito sarebbe servita più velocità ed efficienza delle erogazioni dei sostegni a lavoratori e imprese. Le erogazioni di questi giorni ci dicono che la macchina ora funziona meglio. E direi che anche il Parlamento sta facendo la sua parte, con un grande lavoro di ascolto delle categorie.

Un profondo rinnovamento del Pd non si misura anche dall’aprirsi alle donne e alle esperienze che le vedono protagoniste?

Non mi hanno mai appassionato le cosiddette “quote rosa”, le ho sempre considerate un male minore e transitorio, un metodo per dare una mano a crescere alla nostra società e anche al nostro partito. È stato giusto quello che è stato fatto nel 2011 con la legge Golfo-Mosca che ha introdotto l’equilibrio di genere nelle società quotate, alzato recentemente dal 30 al 40%, con un provvedimento all’unanimità.

E pochi giorni fa, sempre all’unanimità, è passato in commissione Lavoro un principio fondamentale, che è già contenuto sia nella nostra Costituzione sia nella legislazione ma che poi non viene applicato, e cioè che a parità di lavoro una donna non può essere pagata meno di un uomo come invece avviene ancora oggi. Sono passi avanti, uno dopo l’altro, lenti ma inesorabili, con cui ogni giorno si lotta per incrinare il famigerato “tetto di cristallo”.

“Anche se sono la prima donna a ricoprire questo incarico, non sarò l’ultima”: lo ha detto Kamala Harris, ma potrebbero averlo detto Marta Cartabia o Ana Brnabié. E intanto questo Governo ha nominato per la prima volta una donna vice capo della Polizia. Buon lavoro al prefetto Maria Luisa Pellizzari.

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