Sara Biagiotti e Matteo Renzi si sono conosciuti nel 2004, quattordici anni fa. «Io ero consigliere provinciale per i Ds, lui presidente della Provincia».
Nella famosa foto delle tre ragazze ridenti, all’alba del renzismo, Sara è quella di sinistra: al centro Maria Elena Boschi, a destra Simona Bonafè. Nel 2012 era sul camper del segretario. Nel 2014 è stata eletta sindaco di Sesto Fiorentino, la sua città. Epicentro di interessi importanti. La costruzione della nuova pista aeroportuale (Matteo Carrai è presidente di Toscana aeroporti), il termovalorizzatore regionale.
Dopo un anno appena, il 21 luglio 2015, quella che lei chiama «una congiura di palazzo», l’ha sfiduciata. L’ala dalemiana del partito, molto tempo dopo confluita in LeU, ha fatto cadere la giunta. Ha formato una lista civica che, dopo un lungo commissariamento, insieme a Sinistra italiana ha vinto le elezioni.
Biagiotti è tornata in Cna, la confederazione degli artigiani dove lavorava dal 2000. Da allora non ha più preso posizione in pubblico fino a due settimane fa. In direzione regionale del Pd, di cui fa ancora parte, ha detto parole dure «sincere e sofferte» che ha poi pubblicato in rete sul suo profilo Fb, ricevendo centinaia di condivisioni e commenti.
Perché dice: parole sofferte?
«C’era un sogno che si è visto sparire. Il più grande partito del centrosinistra europeo che perde 6 milioni di voti non è una sconfitta: è una disfatta. Il minimo storico, ho controllato: nel 2001 i Ds presero più voti di oggi. In questi ultimi anni sono stata zitta, ma è stato un travaglio personale doloroso. Se ora parlo è perché penso che se il Pd vuole risollevarsi bisogna dire le cose che si sentono, sinceramente».
Lei era sul camper 2012, la rottamazione. Cosa non ha funzionato?
«A parte il termine, molto criticato, la rottamazione riassumeva un’esigenza che tutti sentivamo da anni: andare verso il rinnovamento significava più equità, giustizia, trasparenza, merito. Lotta alla corruzione, all’evasione. Non significava certo sostituire un gruppo di potere con un altro».
È andata cosi? Un gruppo di potere al posto di un altro?
«Purtroppo. Potere significa potere di fare le cose, cambiarle. Non tenere il potere per sé. Guardi le banche».
Degli scandali bancari lei parlò alla Leopolda del 2012.
«Infatti. È la mia formazione. Mi occupo di bilanci. E poi ho letto i sondaggi: a ottobre 2017 in due mesi si è perso il 3 per cento dei consensi sulle banche. Il partito è stato identificato con l’establishment».
Era un po’ difficile non farlo col caso di Banca Etruria.
«Capisco che l’equazione sia stata Etruria uguale Boschi uguale Renzi. Però si doveva fare in modo che gli organismi che dovevano vigilare vigilassero senza entrare nel merito, non bisognava schierarsi. Rispondere alle accuse a livello personale, ma non schierare il partito e sovrapporlo a quella vicenda».
Ha scritto di aver vissuto questi anni, dopo l’esperienza da sindaco, in assoluta solitudine.
«Politica. Sul piano personale ho tanti interessi, lavoro. Ma ho toccato con mano la perdita delle relazioni umane nel partito. I rapporti di comunità si sono persi. Moltissime persone sono state lasciate sole. In tanti mi hanno scritto: da tutta Italia, amministratori. Anche noi ci siamo sentiti soli, hanno detto. Un partito che si è chiuso in gruppi sempre più ristretti invece che aprirsi, parlare, coinvolgersi».
Boschi e Bonafè, le due compagne della celebre foto?
«Mai più sentite».
È successo qualcosa tra voi?
«Niente. Che è pure peggio».
E Renzi, il segretario?
«Sette mesi dopo la mia cessazione da sindaco, il 29 febbraio 2016: ho chiesto io l’incontro, per parlare della situazione di Sesto alla vigilia del voto. È stato cordiale, abbiamo parlato. Era l’epoca della campagna referendaria. Lui era d’accordo sulla candidatura di un candidato che poi ha perso le elezioni. Ma non è stato suo demerito. Nessuno ha voluto ascoltare la pressione dell’opinione pubblica contraria alle due grandi opere che il Pd aveva sostenuto, l’aeroporto e il termovalorizzatore. Ora il presidente della Regione, Rossi, lo stesso di allora, ha cambiato idea e l’impianto non lo vuole più fare. Poteva dirlo prima. Ci abbiamo perso la città. Un bel capolavoro».
Ha detto: in un partito non può contare solo la fedeltà.
«È così. La rottamazione doveva fare spazio ai migliori. Non puoi scegliere quelli che ti sono più fedeli. Devi circondarti di persone più brave di te. Se vuoi solo chi ti dice di sì hai un consenso illusorio, prima o poi ti si ritorce contro. I fedelissimi ti fanno perdere il contatto con la realtà, ti danno sempre ragione. Non si può considerare chi dissente come un nemico: lo spirito critico è indispensabile. Invece ho visto denigrazione sistematica del dissenso, cinismo».
Cinismo per ottenere cosa?
«Per emergere. Non solo tra le cosiddette correnti ma anche all’interno di un gruppo ristretto. Ma se tra di noi, come partito, non siamo un gruppo, dove si vuole andare? In un clima in cui ognuno cerca di prevalere sull’altro: le persone non ci votano. Se non siamo comunità nel partito come possiamo pensare di diventare comunità coi cittadini?».
Lei ha scritto: la gente ci odia.
«È la sensazione che ho, in autobus in treno nei luoghi normali. Gli avevamo dato una speranza di cambiamento. Davvero c’era la sensazione di poter fare quel passo in avanti che in tanti volevano fare. Il fatto di non essere riusciti è stato percepito come un tradimento. Da noi non se lo aspettavano. Ci avevano creduto».
Dove si è rotto il patto con gli elettori?
«Nella perdita di empatia con le persone reali. Guardi: Unioni civili, testamento biologico sono cose bellissime, di grande civiltà. Ma alla gente comune di questa roba gliene importa il giusto. Quelle sono leggi del nostro Dna ma devi anche essere capace di stare vicino alle persone: piccole cose quotidiane, come portare i figli a scuola se non hai mezzi di trasporto. Il lavoro, le periferie. Anche le cose fatte non si sono condivise. La scuola, gli 80 eúro, il jobs act. Non è stata una buona idea mettersi sulla sponda opposta dei sindacati. È vero che ciascuno ha le sue responsabilità: il sindacato nella perdita di una generazione – alla politica e alla militanza – ne ha molte».
Perché ha tutelato i già tutelati?
«Certo. Il sindacato è indispensabile, lo dico prima. Ma ha sbagliato. Ha per lungo tempo anteposto la difesa di chi i diritti li aveva già a quella di chi non ne aveva alcuno. Ha spinto i ragazzi ad andarsene, li ha lasciati nel precariato. Come potevi pensare che si fidassero dite? Poi alla fine sono i pensionati che mantengono i nipoti senza lavoro, nelle famiglie. È un sistema da ripensare nel suo insieme. Servirebbero intellettuali».
Categoria molto impopolare ultimamente.
«L’esaltazione dell’incompetenza non è la strada. Per affrontare i grandi temi del terzo millennio bisogna che qualcuno faccia una riflessione generale e ci vogliono studio e approfondimento. Bisogna leggere, sapere, capire: solo dopo esprimere il pensiero. Invece tutti hanno opinioni ma pochi hanno idee».
Leggo dal suo intervento: «Atteggiamenti arroganti e talvolta prepotenti hanno creato disorientamento».
«Sì. Non si va alle assemblee solo per alzare la mano. È vero che è sempre successo, ma abbiamo replicato gli errori del passato».
Leggo ancora: «Non possiamo essere il partito degli aperitivi».
«Mi ha fatto ribollire il sangue, in campagna elettorale, leggere gli inviti: si fa l’iniziativa, si fa l’aperitivo per Caio e Sempronio. Ma cosa? Aperitivo di che? Ti devi preparare e venire a discutere. Non vuoi sentire le critiche delle persone? Lo so che in una sala di tre o quattrocento persone arrivano anche gli insulti. Ma se vuoi entrare in contatto ti devi mettere con loro. Il partito degli aperitivi è il partito delle èlite. Bisognatornare coi piedi nel fango».
Cosa fa in Confederazione artigiani?
«Faccio conti. Sono commercialista. Vedo la crisi. Le leggi importanti riguardano le grandi società, ma l’Italia è fatta da aziende medio piccole al 95 per cento. Molte sono ditte individuali, fatturati molto bassi. Farle crescere è difficile. Bisogna aggregarsi in consorzi, per esempio per gestire un appalto: un piccolo artigiano non potrà mai da solo. Il muratore l’idraulico l’elettricista. Faccio questo. E poi c’è l’artigianato artistico che potrebbe essere immenso motore di sviluppo: il restauro, i liutai, la ceramica. Sono eccezionali, eccellenze. Andrebbero preservati, aiutati. Chi ci pensa?».
Tornerebbe a candidarsi a sindaco?
«Io sono un soldato, faccio quello di cui c’è bisogno. Sto dentro una comunità politica. Ho fatto il sindaco molto volentieri perché mi è stato chiesto dal mio partito. Oggi mi pare che ci sia bisogno di militanza, a partire dall’esempio. La sobrietà, per dirne una. Una persona di sinistra deve essere sobria. Bisogna vivere come vivono le persone che vogliamo rappresentare, con i piedi nel fango, e guardare al futuro. Per me fare politica è questo: camminare per strada e guardare l’orizzonte, immaginando il cambiamento».