Presidente Renzi, partiamo dai fischi di oggi. È finita la sua luna di miele con il Paese?
«Non vorrei deluderla troppo. Ma io ho preso i fischi dal primo giorno e continuerò a prenderli, mettendo la faccia ovunque. Nella campagna delle Europee 2014, quelle del mitico 41%, ho fatto comizi interi da Palermo a Napoli fino a piazza della Signoria nella mia Firenze dove c’erano centinaia di fischietti, striscioni e contestazioni. E governavamo da due mesi appena, altro che luna di miele. Il 2015 è stato un lungo elenco di fischi dal Jobs act, con la Fiom in tutti i miei eventi a contestare, fino alle proteste dei professori. Non è una novità. Sono invece molto contento del fatto che chi ieri contestava da Confcommercio alla fine è sceso a discutere e con un paio di loro è scattato persino l’abbraccio. Hanno ragione a chiedere meno tasse, ma sanno anche che stiamo riducendo ogni anno la pressione fiscale. Certo, loro non vogliono che diamo gli 80 euro a chi guadagna meno di 1.500 euro netti. Li rispetto, ma non sono d’accordo: io penso che sia una misura di giustizia sociale e non torno indietro».
Se le Amministrative andassero male per il Pd, si aprirebbe un periodo di grande fibrillazione…
«Ho legato la mia permanenza al governo all’approvazione delle riforme nel referendum di ottobre e mi hanno accusato di aver personalizzato. Adesso gli stessi vorrebbero legare il governo al voto di alcune realtà municipali? Ma non scherziamo. Nessun Paese del mondo civile fa così. Si rassegnino: le elezioni amministrative sono un passaggio locale. Utili tutte le riflessioni sociologiche di questo mondo. Ma che vada in un modo o in un altro stiamo parlando di episodi territoriali, non di un voto nazionale».
Ma se il Pd perdesse a Roma e Milano per lei sarebbe un brutto colpo.
«È ovvio che preferisco che vinca. È ovvio anche che il Pd — anche in caso di vittoria — deve affrontare un problema interno perché non è possibile continuare con un gruppo dirigente che tira e altri che tutti i giorni lavorano per dividere. Ci parliamo tra noi e invece dovremmo parlare alla gente. Ma uno alla volta, per carità. Adesso lavoriamo sui ballottaggi, poi discuteremo. Oggi ho visto l’ennesima perla del gruppo dirigente Cinque Stelle: la senatrice Taverna, membro dello staff cui deve rispondere l’eventuale sindaco Raggi, propone di posticipare le Olimpiadi. Dal baratto alle Olimpiadi una volta ogni tanto, dopo averci deliziato con le sirene, i complotti americani sull’allunaggio e altre amenità. Non è un problema di Pd: davvero i romani vogliono questo gruppo dirigente?».
Il 5 giugno si è visto che c’è un ampio schieramento trasversale contro di lei, non ha paura che si rinsaldi e si allarghi al referendum?
«Io credo che sia poco corretto fare analisi di politica nazionale sul voto amministrativo. Ma se proprio si deve fare, dico che non mi fa paura chi fa politica contro qualcuno. Se c’è una novità che ho portato — fin dall’inizio del travagliato rapporto con Berlusconi — è stata quella di fare politica per un’idea e non contro un nemico. Io penso che gli italiani siano molto maturi, più dei politici e più dei raffinati commentatori. Al referendum sulla scheda c’è la possibilità di avere un Paese più semplice o di mantenere il sistema com’è. Di superare finalmente le storture del bicameralismo paritario e dare governabilità o continuare con inciuci, larghe intese e piccoli cabotaggi. Di attaccare quella che viene ritenuta la casta della politica riducendo le spese per parlamentari e consiglieri regionali o tenersi il sistema politico più costoso d’Occidente. Io credo che un elettore deluso, che magari vota 5 Stelle o Lega, al referendum voterà sì. Poi alle politiche del 2018 magari sceglierà un altro premier. Ma quel premier, ammesso che vinca, potrà governare».
Bersani le chiede di non far mettere i banchetti per il Sì alle feste dell’Unità.
«È un atteggiamento che non capisco e mi colpisce molto. Ci siamo giocati tutta la legislatura, nata dal fallimento elettorale, sulla possibilità di fare le riforme. Abbiamo fatto sei letture cambiando più volte il testo per venire incontro alle esigenze di tutti e segnatamente della minoranza del Pd. Sappiamo che se la riforma non passa l’Italia tornerà a ballare per l’instabilità e l’ingovernabilità e torneremmo a essere il problema dell’Europa. E io dovrei vergognarmi di quello che abbiamo fatto? Qui sta il punto. La nostra comunità rispetta chi vuole votare in altro modo, noi non espelliamo nessuno. Ma una cosa è il rispetto per chi non la pensa come la maggioranza, altra cosa è annullarsi, vergognarsi delle nostre riforme, nascondere i nostri tavolini e le nostre bandiere».
Quindi non accetta la richiesta di Bersani?
«Me lo lasci dire: facciamo il Jobs act con 455 mila posti di lavoro in più e stiamo zitti in pubblico per paura di irritare qualche sindacalista. Riduciamo il precariato nella scuola come nel privato con i nuovi contratti a tempo indeterminato e non lo rivendichiamo perché temiamo le polemiche. Eliminiamo l’Imu e non possiamo dirlo perché lo voleva anche Berlusconi. Eliminiamo la componente costo del lavoro dell’Irap e ci vergogniamo perché è una richiesta di Confindustria. Otteniamo il doppio turno e le preferenze e non ci va bene perché il premio alla lista e non alla coalizione mette in crisi la sinistra radicale. Facciamo la legge sui diritti civili e non va bene perché la vota anche Verdini. Otteniamo la flessibilità e non lo diciamo perché il problema è il Fiscal Compact, che peraltro il precedente gruppo dirigente ha ratificato in silenzio. Le feste dell’Unità sono le feste del Pd. Non le feste di una corrente minoritaria del Pd. Se ci togliamo la politica, cosa rimane? E la proposta di dire “Sì al referendum” alle feste viene dal segretario regionale dell’Emilia-Romagna, non dal nazionale».
Anche ieri alla Confcommercio vi hanno chiesto di ridurre le tasse. Almeno a questa richiesta dirà di sì?
«Certo. Se vanno avanti le riforme, avremo ancora margini di azione per ridurre ulteriormente le tasse. Ma non voglio parlare di nessuna ipotesi fino al giorno dopo il referendum. Altrimenti mi diranno, come in passato, che si tratta di una mancia elettorale».
Dopo il 5 giugno se la sente di dire che aveva ragione la minoranza? L’alleanza con Verdini non paga.
«L’alleanza parlamentare con Verdini nasce dal fatto che nel 2013 si sono perse le elezioni. E con Verdini quel gruppo dirigente ha già governato votando insieme la fiducia a Monti e a Letta. Quel gruppo dirigente ha scelto Migliavacca e Verdini per fare un accordo — poi saltato — sulla legge elettorale. E adesso se Verdini — che non è ovviamente rappresentato al governo — vota con noi in Parlamento questo sarebbe un problema? Quanto alle Amministrative, l’alleanza a Napoli e Cosenza, perché queste erano le due città interessate, mi pare che avesse carattere locale. E che non abbia funzionato per nessuno. Nel 2018 il Pd si presenterà da solo, un partito a vocazione maggioritaria come previsto dallo statuto. Punto».
Il Pd non sembra attrarre l’elettorato di sinistra…
«Sinceramente non mi pare questo il punto. Io almeno non vedo un trasloco di voti verso Fassina e Airaudo. Quelli che invece votano Cinque Stelle — meno comunque del passato — sono diversi. Chi non ci ha votato, non ci ha votato per problemi sul territorio, sui singoli candidati. Ma se proprio vogliamo trasformarlo in un voto di protesta contro di me, ok, diciamola tutta: chi non ci vota più per colpa mia non mi accusa di aver cambiato troppo nel Pd. Mi accusa di aver cambiato troppo poco. Mi accusano di aver mediato fino allo sfinimento con tutte le correnti e le correntine del Pd. Ogni giorno ho cercato di mediare, di discutere, di tenere buoni tutti. Dobbiamo cambiare di più, non di meno».
Lei ha detto di voler «usare il lanciafiamme» nel Pd e la minoranza si è sentita nel mirino. Che cosa intendeva dire?
«Il problema non riguarda solo la minoranza. Ma il modo con il quale vogliamo usare questi diciotto mesi che ci separano dal congresso. Vorrei che ci occupassimo del futuro del Paese, non del futuro dei parlamentari. Il male della politica italiana è di avere troppi partiti e troppi politici. Ci vogliono invece più idee nei partiti e più buona politica».
Perché è così contrario all’idea di attribuire il premio di maggioranza alla coalizione vincente e non al partito?
«Mi sembra di essere stato chiaro. Ma le sembra normale che mentre il mondo fuori discute di Trump, mentre l’Europa riconosce il nostro passo in avanti sul Mediterraneo e l’Africa con il Migration Compact, mentre finalmente si passa dalla cultura dell’austerity a una stagione di investimenti, la preoccupazione principale della classe politica italiana sia capire se il premio di maggioranza lo diamo alla lista o alla coalizione?».
I 5 Stelle sembrano pronti a passare dalla protesta alla proposta. Non la spaventa il fatto che Grillo potrebbe rappresentare la novità che prima sembrava rappresentata da lei?
«Quando ci saranno le elezioni politiche la partita sarà una partita a tre. Il Pd, un candidato del Movimento 5 Stelle e vedremo chi sarà, un candidato del centrodestra, e vedremo chi sarà. Gli italiani sceglieranno, a quel punto. Ma se ci sarà un sistema istituzionale finalmente funzionante l’Italia avrà fatto un passo avanti chiunque vincerà quelle elezioni. Io personalmente rispetto tutti e non ho paura di nessuno».
L’hanno criticata perché va da Putin quando in Italia ci sono i ballottaggi…
«Sta scherzando spero. Scusi, che facciamo? Siccome ci sono le amministrative smettiamo di governare il Paese? Non partecipo al Forum di San Pietroburgo su cui ho garantito la presenza da mesi? Ma ci rendiamo conto che in questi anni l’Italia ha recuperato credibilità a livello internazionale? E dovremmo tornare alla piccola guerriglia politica locale, con decine di partiti che si scontrano tutti gli anni in elezioni territoriali mentre gli altri Paesi fanno politica internazionale? Spiacente, io non ci sto. Sono il leader pro-tempore di uno dei Paesi più importanti del mondo, l’Italia che parla con Obama e con Putin. Non l’Italietta che spende settimane a discutere della percentuale di due liste civiche».