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Pinotti: Dagli Stati Uniti un segnale importante per il PD, Ambiente e scelte forti pagano

Da Biden al Nazareno. Dalla lezione americana alla necessità di innervare il “nuovo Pd” di una più forte e radicale cultura politica. Un dibattito che prosegue con Roberta Pinotti, già ministra della Difesa nei Governi Renzi e Gentiloni, oggi presidente della Commissione difesa del Senato e membro della segreteria nazionale del Partito democratico.

Direi di partire dalla “lezione americana”. Con Joe Biden, gli States voltano pagina sperando di essersi lasciati alle spalle l”‘incubo Trump”. Qual è il segnale che dall’America arriva all’Europa e all’Italia, in particolare alle forze progressiste?

Un segnale forte, non solo per la vittoria di Biden ma anche per la scelta di Kamala Harris come vice presidente, per la sua storia, perché è una donna e per la forza che può dare a questa presidenza. Un segnale importante. Poco tempo fa anche in Italia si era aperto un dibattito che si domandava se le categorie di destra e sinistra fossero ormai obsolete. Ora, con tutte le differenze del caso che vanno utilizzate quando si parla dello scenario statunitense, dove il Partito democratico e quello repubblicano sono dei grandi contenitori non rimodulabili esattamente su quelle che sono le tradizioni politiche europee, non c’è dubbio che tra le proposte di Biden e quelle di Trump ci sia una grande differenza. Da una parte ci sono i progressisti e dall’altro i conservatori, trasformatisi in sovranisti nazionalisti. Trump è diventato il punto di riferimento di una destra diversa, radicalizzata, che ha soffiato sulla paura e sulla rabbia, e ha lavorato sulla delegittimazione delle tradizionali istituzioni democratiche. La differenza che vediamo nei temi che porterà avanti Biden è netta e lampante: sono già partiti i contatti per riportare gli Usa nel Trattato di Parigi; la grande sfida sul clima e sull’ambiente, completamente abbandonata da Trump e Biden la pone, invece, come uno degli obiettivi prioritari della sua Presidenza. Altra scelta paradigmatica è nel fatto che ha immediatamente costituito una task force sulla salute; un cambio di passo a 180° rispetto al negazionismo di chi prima aveva sottovalutato e poi trattato in modo istericamente differenziato la crisi pandemica. Biden e la Harris hanno messo subito in evidenza il tema del diritto alla salute, e dunque anche del ruolo pubblico nella sanità. C’è poi, per continuare a declinare le discontinuità sostanziali tra Biden e Trump, il rispetto delle istituzioni e il rispetto degli stessi avversari. Una differenza profonda di contenuti e di stile. Accennavo prima alla differenza tra una destra nuova e aggressiva, quale quella rappresentata da Trump, e il diverso posizionamento politico che ha tradizionalmente tenuto il Partito Conservatore, sulle istituzioni e l’unità della nazione. Ricordo il discorso di McCain quando nel 2008 vinse Obama: le sue parole da candidato sconfitto sono state quelle di un patriota che ha riconosciuto non soltanto la vittoria del suo avversario ma ha rammentato a tutti i suoi sostenitori che Obama era ormai il presidente di tutti, del Paese che ciascuno di loro amava.

Trump ha avuto con l’Europa un rapporto difficile. C’è da aspettarsi una riconciliazione adesso?

Il cambio di guida alla Presidenza americana è importante anche per l’Europa, che ha vissuto gli anni di Trump tenendo con molta difficoltà i collegamenti con la principale potenza di riferimento. L’Europa ha sempre scelto l’atlantismo: la Nato non è stata solo un’alleanza militare ma una scelta di valori condivisi dal mondo occidentale. Ma nell’ultimo quinquennio l’Europa ha rischiato di essere resa più debole, stretta tra gli interessi di Usa, Cina e Russia. Con Biden si riapre una stagione in cui l’Europa sarà interlocutore importante e potrà impegnarsi maggiormente nel ruolo che le è proprio e che è utile nel mondo: un ruolo che fa parte della sua storia, della sua tradizione. Nel nuovo “disordine mondiale” che stiamo vivendo, valori quali l’attenzione ai diritti umani, la centralità della democrazia, la priorità della stabilità e la ricerca della pace diventano il terreno fecondo su cui rifondare una rinnovata partnership con gli Stati Uniti, che deve essere una partnership non solo economica e commerciale, ma di valori e di visioni comuni del mondo.

In questi giorni abbiamo letto delle analisi in Italia, sulla vittoria di Biden, di quelli del “ha vinto perché è stato centrista”. Ma se si ha la pazienza e la curiosità di leggere il programma del Partito democratico, sembra tutto meno che un programma “centrista”. Non credi invece che la vittoria di Biden ci dica che per vincere ci sia bisogno di più radicalità?

Questa idea che si vince al centro è una lettura che non condivido. Non penso che sia questo il motivo per cui Biden ha vinto le elezioni. Pur essendo un candidato moderato nei toni, ha saputo essere molto incisivo su alcune scelte. In campagna elettorale molti avevano mostrato preoccupazione per il fatto che avesse rivendicato i suoi obiettivi per l’ambiente anche in alcuni Stati dell’Unione in bilico, che avrebbero potuto costargli l’elezione, perché lì il mondo produttivo e i lavoratori manifestavano preoccupazioni sul loro futuro occupazionale. Biden ha tenuto la barra diritta e ha vinto. Io penso che su questo, e vengo a noi, il Pd – proprio perché in Italia non è mai nato, come in altri Paesi, un forte partito ecologista – deve procedere con determinazione sulla scelta di un “green deal”, di una economia sostenibile per un mondo di cui avere cura e difendere, con politiche pubbliche per beni fondamentali come l’ambiente, la salute, l’istruzione. Questa scelta può diventare il perno della visione strategica del Pd e della sua azione di cambiamento. Riguardo a questi temi l’ultima Enciclica di Papa Francesco, “Fratelli tutti”, come la precedente “Laudato sì”- dà un messaggio molto importante e non solo per i credenti, perché ci consegna delle chiavi di lettura sulle prospettive del mondo.
Occorre mostrarsi agli elettori con la propria identità, che ha anche bisogno di radicalità, cioè di scelte che siano percepibili come forti, scelte di campo, fondate su valori e obiettivi che diventano centrali nella iniziativa politica. Una identità indistinta o timida, soprattutto in un momento in cui sono state costruite a destra delle identità aggressive e rampanti – che io giudico estremamente negative ma che sono comunque identità forti- non può funzionare: alla sinistra e ai progressisti è richiesta la nettezza del proprio profilo e il coraggio della radicalità.

E qui arriviamo al Pd. C’è chi sostiene che è nato troppo tardi, chi afferma che abbia tradito la sua ispirazione originaria. Insomma, siamo passati da una malriuscita fusione a freddo a una mortalmente glaciale?

Ho letto con attenzione e interesse varie opinioni, espresse anche su questo giornale in un confronto davvero molto stimolante, perché sono opinioni che nascono tutte dalla volontà di capire come ricostruire questo campo. Devo dire che non mi ha mai convinto l’appello, che ciclicamente si ripete, del “sciogliamo il Pd”.
Non credo che sia utile sciogliere il Partito democratico, ritengo che un soggetto organizzato, che ha competenze, che conosce i territori, che ha storie politiche importanti e esperienze di governo, che ha valori e punti di riferimento, sia una forza essenziale per il Paese. E vero che deve diventare una forza politica più aperta e inclusiva.

Partendo da cosa?

Ho pensato spesso a come è nato il Partito democratico, da una intuizione, per me, profondamente giusta: mettere assieme le migliori tradizioni del riformismo italiano, quella cattolica e quella socialista; è stata una scelta che ha risposto alle necessità del tempo. Caduti i muri, reali e ideologici, le prospettive con cui si guardava alle esigenze delle persone, la sensibilità per il sociale, la centralità e la dignità del lavoro erano punti comuni su cui è stato giusto unire storie politiche. Ma, e qui veniamo al punto per me più dolente, proprio perché si era deciso di far convergere storie politiche diverse per fare qualcosa di nuovo, non si doveva trascurare la formazione della cultura politica. Che presuppone la formazione delle persone, dei gruppi dirigenti ma anche l’alimentazione dei centri di pensiero che dai valori sappiano elaborare politiche per l’attualità. Noi, proprio perché venivamo da storie diverse, avevamo ancora maggiore necessità di cultura politica, per fare interagire le nostre storie differenti e per far crescere nuovi entusiasmi, nuove passioni e interpretare con gli occhiali giusti la realtà. Devo dire però che con Nicola Zingaretti e con il lavoro di Gianni Cuperlo nella Fondazione Pd, pur con risorse molto limitate (perché in Italia è stato abolito il finanziamento ai partiti) e con le difficoltà dovute al Covid, il lavoro sulla cultura politica è ricominciato. Occorre tempo, ma ne vedremo i risultati.

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