Il candidato Pier Carlo Padoan non è ancora in campagna elettorale, ma si sta preparando. Per il momento l’unica iniziativa cui ha partecipato è in una sezione Pd dell’Esquilino, fra bandiere del Pci e dell’Unione Sovietica, invitato dagli iscritti. È nell’ufficio di via XX settembre, sta organizzando appunti al computer. Alza la testa, si schermisce: «Mi saranno utili in futuro». Non vuole fare previsioni sul dopo voto, se auspichi o meno una grande coalizione. Per lui la battaglia è fra “demolitori e costruttori”. Chi ha orecchie per intendere, intenda. In ogni caso quello che tratteggia sembra il programma di massima per avere una larga base parlamentare.
Ministro, dopo quattro anni a quella scrivania ha dalla sua risultati non disprezzabili. Ci si è seduto la prima volta con l’economia ancora in recessione, la lascia con un discreto segno più. Se si esclude la Gran Bretagna in Europa siamo però ancora il Paese che cresce meno di tutti. Avete creato più di un milione di posti di lavoro, ma il 58 per cento sono a tempo determinato. Che fare per ottenere di più?
«Una delle leve più importanti è quella degli investimenti pubblici. Però richiede che tra la fase di programmazione e quella di realizzazione ci sia una macchina pubblica che funziona. Spesso ci si lamenta del fatto che l’Europa non ci fa spendere soldi, eppure non passa mese senza che mi si faccia notare il ritardo nell’utilizzare le risorse».
Quanto di quell’inefficienza pesa sulla crescita?
«Sono convinto che se fossimo capaci di spendere le risorse disponibili nel bilancio fino all’ultimo euro cresceremmo già oggi almeno del due per cento».
Ci dica una priorità per la prossima legislatura.
«Penso alle cose che bisogna cominciare a fare per ottenere risultati nel lungo termine. In questi anni abbiamo dovuto affrontare un’emergenza dietro l’altra: la recessione, l’aumento del debito pubblico, le banche. Abbiamo riparato la macchina, l’abbiamo rimessa in carreggiata. Adesso serve una fase due, quella della programmazione lungimirante. Per una crescita sostenibile serve un tempo paziente».
In concreto?
«Significa che dobbiamo investire sul capitale umano sottoutilizzato: lavorare sull’educazione e la formazione. E dobbiamo mettere le donne in condizioni di contribuire alla crescita. In questi anni giovani e donne sono rimasti indietro. Ci siamo persi il loro contributo».
Insisto: in concreto?
«Nell’immediato si possono introdurre vantaggi fiscali per le famiglie e promuovere l’occupazione femminile. Ma per essere efficaci nel lungo termine dobbiamo migliorare i servizi alla famiglia, dal sostegno ai “care giver” ovvero a chi si occupa di bambini, anziani o disabili in casa agli asili nido. Sono questi servizi, questa rete che libera il tempo delle donne e le mette in condizione di contribuire allo sviluppo».
Sono sempre di più le imprese che spostano le produzioni in parti d’Europa in cui la manodopera costa meno. Non occorre insistere per abbattere il costo del lavoro?
«La concorrenza al ribasso dei salari non è una battaglia che possiamo giocare. Il costo del lavoro lo abbiamo già abbassato: dia un’occhiata agli ultimi dati sull’Irap, vi si può leggere chiaramente l’effetto della cancellazione del cuneo fiscale presente in quell’imposta fino al 2014. E gli 80 euro hanno aumentato il netto in busta paga per i lavoratori».
Evidentemente non basta. O no?
«E infatti dobbiamo insistere. Ma se in un Paese europeo ci sono operai disposti a farsi pagare un terzo di quelli italiani per la stessa mansione non c’è molto da fare. La partita che dobbiamo giocare e vincere è quella dell’innovazione, sui prodotti a valore aggiunto. Più scommettiamo sulla formazione e su Impresa 4.0, più avremo imprese competitive e lavoratori ben pagati».
Introdurre una flat tax non potrebbe dare uno shock all’economia come accaduto in alcuni Paese dell’ex est europeo?
«A parole è semplice. La proposta più seria tra le mille che sento l’hanno elaborata Nicola Rossi e l’Istituto Bruno Leoni, ma contiene l’aumento dell’IVA al 25 per cento su tutti i prodotti: dubito che raccoglierebbe molti consensi. Ho sentito dire da Berlusconi che nella sua proposta le tre detrazioni principali per figli, interessi sui mutui e lavoro dipendente resterebbero. Dunque come la si finanzierebbe? Non basterebbe la cancellazione di tutte le altre agevolazioni fiscali».
Non si potrebbe chiedere più flessibilità all’Europa? Di fatto lo chiedono tutti i grandi partiti, Pd compreso.
«Si dice flessibilità, si legge debito. Sento le stesse persone dire che bisogna tagliare il debito e poi che bisogna aumentare il deficit. Ma il deficit si trasforma in debito».
Eppure lei ha negoziato proprio su questo con le istituzioni europee, e di flessibilità ne ha ottenuta.
«L’abbiamo ottenuta proprio perché abbiamo trovato uno spazio dentro le regole. Se tu rispetti le regole, anche quelle che non ti piacciono, vieni rispettato dagli altri e allora puoi provare a cambiarle. Altrimenti vieni emarginato. Nelle istituzioni europee si decide a maggioranza ed è inutile alzare la voce se gli altri non si fidano. Poiché abbiamo riconquistato credibilità, penso dovremmo spenderla per ottenere che la spesa per investimenti non venga calcolata ai fini del rispetto del trattato di Maastricht. Il deficit per spesa corrente si trasforma in debito nel presente e nel futuro, quello per investimenti aumenta il potenziale e si trasforma in ricchezza. Un governo stabile e con una strategia di lungo periodo potrebbe ottenere questo risultato».
A giudicare dai sondaggi sembra difficile che esca dalle urne un vincitore in grado di garantire stabilità. Potrebbe essere un governo di larghe intese a farlo?
«Guardi, in campo vedo tre posizioni. Quella dei demolitori, che vogliono abolire quanto fatto in questi anni senza alcuna proposta. Poi c’è la bacchetta magica, agitata da chi promette di fare sparire in un colpo solo problemi accumulati in vent’anni. E poi ci siamo noi, che in quattro anni abbiamo trainato il paese fuori dalle secche delle crisi. Abbiamo tracciato una strada per il futuro. La partita è costruttori contro demolitori».
Condivide i timori dell’Europa su una vittoria delle ragioni populiste?
«Ciò che dobbiamo temere soprattutto è un governo debole che non sia in grado di dire la sua ai tavoli che contano. Ora che la Germania si avvia ad avere finalmente un governo con una maggioranza parlamentare il rischio è che si accordi con la Francia per una riforma delle istituzioni europee passando sopra la nostra testa».
Che tipo di riforme teme?
«Penso a misure che potrebbero avere conseguenze ben più pesanti del fiscal compact o del bail-in. Per esempio l’idea di imporre un tetto al possesso di titoli di Stato alle banche. Davanti a un governo incapace di promuovere uno sviluppo sostenibile e duraturo le istituzioni europee finirebbero con l’adottare regole sempre più rigide. Un governo antieuropeo a quel punto avrebbe buon gioco a dire “ce ne andiamo” e davanti al noi si aprirebbe un baratro».
La grande coalizione in Germania è una buona notizia per l’Italia?
«Avremo un interlocutore capace di comprendere le ragioni italiane. Mi sembra un’ottima notizia se sapremo sfruttarla».
Lei dove si candida?
«Dove può essere utile il mio contributo. Se ne sta parlando in queste ore».
È stata una decisione sua o è stato Matteo Renzi a chiederglielo?
«Penso che in questi anni sia stato fatto un lavoro importante. Ho deciso di impegnarmi perché non vada disperso, perché si continui nel solco tracciato. Ne abbiamo parlato insieme e abbiamo deciso che la candidatura avrebbe dato un contributo utile».