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Orlando: «Per la sinistra il progresso è un’aspirazione imprescindibile»

Caro Direttore,

Ernesto Galli della Loggia, sul giornale dell’altro ieri, ci ammoniva sulla retorica del «progresso», a cui la sinistra resterebbe legata malgrado il termine appaia ormai un feticcio vuoto di senso: un concetto in declino, che contribuisce al declino della sinistra.

 

Sorvolo sulla contingenza che ha dato origine all’articolo il nome del movimento nato dalla scissione del Pd perché la riflessione è più profonda e ci interroga tutti. Mi permetto di aggiungere un argomento, a quelli di Galli della Loggia: il rischio paventato da alcuni economisti di una «stagnazione secolare», cosa richiama se non propriamente il declino dell’idea di progresso? Dico subito che la via proposta una sinistra che abbia il coraggio di dirsi «regressista» non mi pare, francamente, la soluzione: anche perché già esiste, e molto oltre le intenzioni e lo spirito della provocazione di Galli della Loggia, si incarna nella visione idealizzata di un passato che non è mai esistito o, peggio, in un’accozzaglia ai credenze antiscientifiche e complottiste. In ogni caso, in quella sinistra agisce spesso una radicale sfiducia nell’uomo dalla quale io credo occorra tenersi lontani.

 

Galli della Loggia ci parla poi delle conseguenze dell’innovazione, verso cui invita a guadagnare una distanza critica. Sono d’accordo. Di fronte alle rivoluzioni tecnologiche che non di rado producono ingiustizie sociali e generano inquietudini la politica troppo spesso ha abdicato al proprio ruolo. La sinistra si è divisa tra tentazioni neoluddiste e tifoseria acritica. Ma non si può rispondere al cambiamento cercando di fermarlo, esattamente come non possiamo affidarci a una sorta di «Provvidenza digitale» di cui dovremmo limitarci a osservare le meraviglie. Io credo piuttosto che la politica abbia, fra gli altri, il compito di rispondere alle inquietudini dei perdenti o dei dimenticati: non solo i poveri ma anche quelli che temono l’impoverimento e a cui non rimane che rivoltarsi contro la società aperta, votando Brexit o Trump.

 

Credo allora che nella grande trasformazione di questo tempo si pongano nuove domande di libertà e di uguaglianza, e persino nuove domande di senso, rimaste sin qui inevase. Ed è sulle risposte che va misurata la politica, e persino l’innovazione stessa, che non deve essere subita, ma orientata. L’insieme di queste risposte segnerà ancora la differenza tra destra e sinistra. Per il partito che ho in mente, allora, il «progresso» resta un’aspirazione imprescindibile: dico «progresso», almeno per quel poco latino che mi è rimasto, nel senso di «andare avanti», perché è esattamente ciò che deve essere permesso a chi è rimasto indietro.

 

Fra le trombe dell’apocalisse e le sirene dell’integrazione penso che, in definitiva, sia preferibile ancora la terza via di chi non crede che questo sia il peggiore dei mondi possibili, e tuttavia sa benissimo che c’è un immenso lavoro da fare per renderlo migliore.

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