L’analisi dell’Ocse esamina due differenti tipi di tassazione cui sono sottoposte le aziende: quella sul lavoro e quella sui capitali (dividendi, capital gain , eccetera). La componente del lavoro vede notoriamente il nostro Paese ai primi posti come pressione fiscale. In Italia, considerando anche i contributi previdenziali e sociali, il fisco porta a casa il 54% dei ricavi. Si tratta di un livello che colloca l’Italia sul podio tra i Paesi sviluppati perché solo Belgio (64%) e Francia (56%) premono ancor di più l’acceleratore sulla fiscalità relativa alla manodopera. Corea del Sud, Giappone e Messico registrano prelievi inferiori al 30%. L’Italia è messa peggio anche di Svizzera, Gran Bretagna e Stati Uniti che, notoriamente, non hanno nelle pmi il loro punto di forza economico.
Il paradosso italiano è rappresentato dal fatto che la situazione tende a migliorare leggermente quando si evidenziano i casi di doppia tassazione, cioè quelli relativi ai casi nei quali dividendi e plusvalenze rientrano nella base imponibile. Si tratta di casi più rari perché una piccola impresa generalmente non fa parte o non costituisce gruppo societario. Ebbene, in Italia la pressione fiscale per chi è soggetto anche a imposte sui cosiddetti corporate income oscilla tra il 46 e il 48 per cento, valori poco al di sopra della media Ocse. Insomma, per un’azienda italiana – come per quasi tutte quelle dei Paesi sviluppati – conviene più finanziarizzarsi che puntare sul lavoro e sulla produttività , notevolmente penalizzati da una tassazione pesantissima, a partire dal fardello dell’Irap.
Le due uniche previsioni che alleviano il carico fiscale sono le detassazioni – generalmente in regime forfettario – previste per le startup (soprattutto le innovative) e le esenzioni sull’imposta di successione in caso di conservazione dell’investimento.