Tommaso Nannicini ha lasciato l’ufficio del governo di Piazza Colonna per tornare all’Università Bocconi. Lo aspettava una ricerca sui comportamenti degli elettori. A Roma tornerà ogni tanto come coordinatore del programma nella nuova segreteria Pd.
Sia sincero, dopo il 4 dicembre se lo sarà chiesto: «Dove abbiamo sbagliato?»
«Il disegno era e resta giusto. Abbiamo sottovalutato il fatto che i disegni politici hanno bisogno di tempo, sia per essere implementati dalla macchina burocratica sia per essere compresi dagli elettori. E che per cambiare il Paese occorre cambiare i partiti».
La macchina burocratica è lenta, e avreste dovuto impegnarvi di più per farla lavorare. Per portare la politica nelle case una volta c’erano le sezioni. È ciò che manca al Pd di Renzi?
«Non sono un nostalgico della prima Repubblica. Il mondo cambia, e con lui i partiti. Ma i partiti devono essere presenti nella società. C’è una forte domanda di partecipazione e di impegno, solo si esprime in forme nuove. Bisogna inventarsi modi nuovi per connettere istituzioni e società: nell’associazionismo, nei circoli, sulla rete, nel confronto con i corpi intermedi».
Quanto durerà il governo Gentiloni? Durerà il tempo necessario a completare le nomine in scadenza?
«Mi occupo del programma del Pd, non del cronoprogramma della politica».
Pierluigi Bersani sostiene che la politica dei piccoli passi non basta più. Dice che il Pd deve «cambiare strada».
«Non sono d’accordo. La strada era giusta e i passi, anche se non sufficienti, non sono stati piccoli. Da lì dobbiamo ripartire. L’alternativa è la politica dei finti nuovi inizi, del posizionamento tattico giorno per giorno. Tutte cose che servono a chi vive di politica più che ai cittadini».
Il ministro a lui più vicino, Maurizio Martina, propone di approvare per decreto la delega sulla povertà, arenata da tempo in Parlamento. «Sono d’accordo con lui che la politica debba dare una risposta al grido d’allarme dell’Alleanza contro la povertà, perché il costo dell’instabilità politica non sia pagato dai poveri. Ma ci sarebbe un modo semplice per farlo. La delega non è arenata, manca solo l’ultimo miglio: il Senato potrebbe approvare il testo della Camera così com’è e il governo impegnarsi a varare il decreto attuativo sul reddito d’inclusione in un mese».
Cosa significa in concreto?
«Ci sono a disposizione un miliardo e ottocento milioni di euro con i quali possiamo dare sostegno monetario all’85 per cento delle famiglie con redditi al di sotto dei tremila euro l’anno. Poi, con altri 300 milioni possiamo arrivare al 100 per cento di quelle 500 mila famiglie. Un passo fondamentale verso quella misura unica di contrasto alla povertà di cui si parlava da anni».
Perché un decreto non va bene?
«Qualsiasi strumento va bene, basta che non si dia l’idea di ripartire sempre da zero. In attesa della delega, l’allargamento a tutto il territorio nazionale del Sia (Sostegno alla inclusione attiva) è partito a settembre e raccoglie quindicimila richieste al mese. Se vogliono le Regioni possono partecipare e rafforzare i programmi: con la Puglia e il Friuli sono già stati firmati due protocolli. Il percorso va rafforzato affiancando al trasferimento monetario un’infrastruttura di servizi».
Quali in particolare?
«Per evitare che la povertà passi da una generazione all’altra bisogna combattere le condizioni di debolezza delle famiglie. Penso ad assistenza pediatrica, servizi educativi personalizzati, attivazione al lavoro».
L’Alleanza per la povertà dice che per combattere seriamente il disagio sociale ci vorrebbero sette miliardi.
«L’Alleanza ha riconosciuto che quanto fatto finora è un primo passo, certo non sufficiente. Ma prima di aprire la fase due punterei a completare la fase uno».
Se oggi avete l’urgenza di intervenire nei confronti delle fasce più povere forse è perché negli ultimi due anni vi siete concentrati troppo sulla classe media?
«Eccome se ci siamo occupati dei meno abbienti: abbiamo allargato fino a due anni la Naspi, mobilitato 400 milioni in tre anni con l’aiuto delle Fondazioni bancarie per combattere la povertà educativa e stanziato altri 180 milioni per il diritto allo studio».
Renzi è arrivato Palazzo Chigi in nome di una svolta generazionale, eppure ad abbandonarvi sembrano essere stati anzitutto i più giovani. Si è chiesto il perché? Come pensate di recuperare il loro consenso?
«La politica deve tornare a intercettare chi ha voglia di lavorare per migliorare il suo Paese. Deve tornare ad essere un luogo di elaborazione delle scelte collettive, diversamente i messaggi vengono calati dall’alto e ci si perde nel teatrino quotidiano. Nel mio piccolo la rinuncia al governo nasce da questa consapevolezza».