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Morire a 24 anni per caporalato, ora basta chiudere gli occhi

Si chiamava Singh, aveva appena 24 anni e faceva il bracciante nelle campagne della piana di Fondi, nel Sud Pontino, territorio a tradizionale vocazione agricola. E territorio anche a tradizionale presenza mafiosa, che proprio nelle campagne affonda le sue radici e trae parte del suo consenso. La vita di Singh in Italia è trascorsa nella penombra di un lavoro quotidiano svolto per pochi euro al giorno, tutti i giorni.

 

Una condizione quotidiana che molti lavoratori e lavoratrici stranieri conoscono bene. Alcuni sopportano, altri denunciano attraverso sindacati e associazioni. Singh ha deciso invece a suo modo di uscire dalla sua condizione sociale attraverso il gesto più estremo immaginabile, quello del suicidio. Si è infatti tolto la vita nella giornata di martedì mattina impiccandosi con il filo bianco di un’antenna televisiva nella sua abitazione privata. Lo hanno trovato, scioccati, i suoi compagni che subito hanno chiamato la polizia, che non ha potuto che accertarne la morte.

 

Una tragedia nella tragedia. Una morte che però pesa sulla coscienza di molti. Dei trafficanti di uomini, che lucrano sulle aspettative indotte e la povertà di migliaia di persone. Sui “padroni”, che usano i lavoratori come fossero braccia di loro proprietà. Sulle istituzioni, soprattutto locali, troppo distanti ancora da questi lavoratori e lavoratrici e dalla loro condizione, distratti da altro o interessati ad un quotidiano lontano dai temi del lavoro e della lotta contro lo sfruttamento. Emarginazione, segregazione sociale e violenze sono invece il pane quotidiano per migliaia di braccianti originari dello Stato indiano del Punjab. Singh lo sapeva, lo aveva imparato a sue spese nei campi agricoli del Sud Pontino. Come molti suoi compagni, era stato probabilmente vittima della tratta internazionale a scopo di sfruttamento lavorativo, sottoposto alla volontà diretta di un caporale, a volte anche indiano, che lo obbligava ad accettare una paga oraria di circa 3,5 euro al giorno per lavorare anche quattordici ore senza sosta.

 

Non è il primo caso di suicidio per sfruttamento. È capitato anche l’anno passato, d’estate. Ancora un bracciante indiano decise infatti a Sabaudia, di togliersi la vita impiccandosi in una serra. Anche in quel caso ne parlarono in pochi e quel suicidio fu velocemente derubricato a gesto folle di uno squilibrato. Invece era carico di significato ed era stato compiuto con consapevolezza. L’emarginazione e la solitudine dei lavoratori stranieri, a cui spesso si somma lo sfruttamento e l’obbligo del silenzio – in pieno stile mafioso – hanno effetti devastanti sulle vite di queste persone.

 

Sono i nuovi schiavi, vite di nessuno o di scarto direbbe Bauman, rondelle di un ingranaggio assai più ampio e complesso che si chiama agromafie e che nel pontino comprende organizzazioni criminali come il clan dei casalesi e la mafia siciliana. Per Bauman, le politiche globali hanno posto le condizioni per lo sgretolamento del tessuto sociale e per la crisi dell’identità dell’uomo contemporaneo. E infine inglobato nella produzione lo sfruttamento, legittimandolo almeno sul piano economico. Da qui discendono aspetti perversi della produzione agricola. Fra questi il caso di molti lavoratori ancora indiani che, per sopportare le fatiche nei campi, assumono sostanze come metanfetamine, oppio e antispastici. Lo scopo non è quello dell’evasione dalla propria condizione sociale ma la migliore sopportazione delle fatiche fisiche a cui sono obbligati nei campi agricoli. Assumere sostanze dopanti per restare schiavi e non far crollare la relativa produttività.

 

È un sistema perverso di produzione e un modello sociale che ha una responsabilità diretta per la morte di Singh. Si deve ricordare che nelle campagne italiane si stima che siano circa 400 mila i lavoratori che vivono in condizioni di grave sfruttamento mentre 100 mila sono prossimi alla schiavitù. Singh era uno di questi, uno tra i tanti braccianti obbligati a chinare la testa dinnanzi al padrone. Una storia questa che non ha un lieto fine, ma che lascia intravedere una reazione e uno spiraglio di speranza che le istituzioni dovranno saper sostenere dando seguito agli impegni presi di recente dal ministro Martina contro lo sfruttamento e il caporalato, a seguito delle morti di alcuni braccianti la scorsa estate. Fatto che destò scalpore perché alcuni erano anche italiani ma ugualmente sottomessi a queste regole di semi-schiavitù.

 

Intanto domenica prossima circa 1200 lavoratori indiani saranno impegnati in una assemblea pubblica presso il tempio Sikh di borgo Hermada. Hanno iniziato ad auto organizzarsi in associazione per far conoscere la loro condizione e far valere i loro diritti. Un fatto nuovo e importante maturato nel tempo anche grazie alla vicinanza di In Migrazione e della CGIL. Sarà un momento per discutere insieme di diritti, legalità, giustizia sociale, contrasto operativo alle mafie e ad un sistema padronale ormai consolidato. É un primo risultato non scontato. Frutto di anni di ascolto e discussione, di denunce e di sindacato di prossimità o di strada. Un lavoro politico innanzitutto che intercetta persone e coscienze.

 

Come Forum immigrazione del PD sosterremo in tutti i modi e sedi questa iniziativa, chiedendo un ulteriore sforzo da parte di governo e autorità locale a difesa della legalità e dei diritti umani e civili di queste persone senza le quali l’economia agricola del Sud del Lazio rimarrebbe paralizzata.

 

Vogliamo pensare che Singh sarebbe stato felice di questa iniziativa. Si sarebbe sentito rappresentato, protagonista, finalmente soggetto pubblico portatore di diritti e non rondella di un ingranaggio nelle mani di un padrone che non ha nulla dell’imprenditore. Avrebbe partecipato e forse capito di non essere più solo. Avrebbe capito che insieme cambiare e migliorare le cose diventa possibile.

 

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