Viceministro Morando, tra Renzi che vuole un taglio secco alle tasse puntando a sfiorare il 3% di deficit e Padoan che punta a interventi mirati chi l’avrà vinta, secondo lei?
«Premesso che Renzi ha dato un orizzonte futuro alla sua proposta, quello che questa legge di bilancio può continuare a fare, è consolidare e implementare ciò che si è fatto nei quattro anni precedenti, quelli del suo governo e di quello Gentiloni».
Ovvero?
«Con un’iniziativa del Pd, il governo dovrebbe concentrare molto gli obiettivi da conseguire e a mio parere dovrebbero essere due: introdurre una norma, su cui mi pare si registri largo consenso anche oltre la maggioranza, per una riduzione strutturale e contributiva sul lavoro dei giovani, che renda permanente la decontribuzione fatta nel 2015».
Come la costruirebbe?
«Così: dimezzare le tasse sul lavoro per due anni per i nuovi assunti, per le imprese che prendono un ragazzo a tempo indeterminato o con contratto di apprendistato. Dopo due anni, dovrebbe restare in capo a quel lavoratore una riduzione fiscale, per dare un carattere strutturale che si allargherebbe a macchia d’olio negli anni in un processo di lunga durata di un ventennio. Sarebbe un consolidamento dei risultati del jobs act, delle politiche fatte dal governo Renzi».
E la seconda misura?
«Incentivi a investimenti privati in macchinari ad alta tecnologia. Per avere una ripresa va innalzata la produttività . E bisogna fare ancora di più per spingere la contrattazione di secondo livello, nelle aziende. Ma questo crea qualche problema politico con un pezzo di sinistra, anche se la Cgil ormai è più orientata a favore. Inoltre ci vuole qualche intervento straordinario per sostenere investimenti pubblici di enti locali».
Cosa farete per convincere Bersani a votare la manovra?
«Bersani insiste sugli investimenti pubblici e su questo un accordo si può trovare, anche perché lì il problema non è di risorse, ma di regole e capacità amministrativa. Ma ogni tanto sento esponenti Mdp ipotizzare uno stop all’attuazione del jobs act e su questo non può esserci accordo. Si chiederebbe al Pd di far venir giù uno degli architravi del suo programma. Invece, un altro tema su cui si può lavorare è il sostegno alla povertà assoluta, che può venire implementato sia sul piano finanziario, sia migliorando la relazione con gli enti locali per la gestione della norma già varata e per far uscire più persone da questa condizione».
Possibile che la manovra sia di circa 15 miliardi rispetto ai 25 miliardi da lacrime e sangue inizialmente previsti?
«Certo, per via dell’intesa con l’Ue su una correzione dimezzata dello 0,3% del pil e grazie alla crescita 2017 maggiore del previsto, potremmo avere una manovra da fare certo inferiore e non di poco a quella prevista nel Def».
E il governo teme di non avere i numeri in Senato?
«La maggioranza si è fatta molto esigua in Senato, la politica ha le sue regole e se c’è una scissione del principale partito di governo i protagonisti possono pure dichiarare di voler essere leali, ma inesorabilmente quando vengono le scelte concrete hanno bisogno di distinguersi. Certo sui vari punti un accordo con i partiti di maggioranza si può trovare. Ma c’è un voto preliminare che necessita della maggioranza assoluta e sarà quello il giro di boa fondamentale».
Quale?
«Il voto che ci sarà in settembre della risoluzione che dovrà presentare il governo sul piano di rientro dall’indebitamento strutturale: in altre parole è il via libera a una manovra che corregge i conti della metà rispetto a quanto previsto nel Def. Questo voto necessita di 161 sì, cioè della maggioranza degli aventi diritto. Anche se in linea teorica è un passaggio difficile, nessuno dovrebbe opporsi. È quello sulla carta l’unico voto in cui le regole pretendono la maggioranza assoluta ed è preliminare alla legge di bilancio. Chi vota contro si prenderà la responsabilità di dire che la manovra dovrà caricarsi di altri cinque miliardi di euro…».