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Amendola: Marcinelle a 60 anni dalla strage

Erano le 8.30 dell’8 agosto di sessanta anni fa, quando nel pozzo numero uno della miniera di Bois du Cazier, a Marcinelle in Belgio, morirono 262 persone di cui 136 italiani. L’ultimo cadavere fu estratto dopo oltre un anno, nel dicembre del 1957.

Ad oggi è uno dei più drammatici incidenti sul lavoro all’ estero per il nostro Paese.

 

Una tragedia provocata – diranno poi le ricostruzioni – dall’accidentale e veloce risalita di un ascensore che causò la rottura di una tubatura d’olio e, toccando le pareti, generò delle scintille che appiccarono le fiamme. I procedimenti giudiziari dopo l’incidente dureranno anni e non sarà mai fatta piena luce sulle responsabilità.

 

Erano figli dell’Italia di provincia, di famiglie numerose, agricoltori e disoccupati di una nazione povera e inginocchio che, uscita sconfitta dalla Seconda Guerra Mondiale, provava a rialzare la testa. Nel 1948 si contavano quasi due milioni di disoccupati, con un aumento annuo di 300mila unità.

 

Il nostro era descritto come il Paese dei migranti, dei «macaroni» dalle facce nere e scure pronti a qualsiasi lavoro pur di aiutare i propri cari rimasti in patria.

Lo erano le 23 vittime di Marcinelle provenienti da Monopello, che Arminio Savioli sulle pagine de l’Unità descrisse come «un piccolo paese dell’Abruzzo, così piccolo da meritare appena un segno illeggibile sulla carta geografica d’Italia e segnato da un tenore di vita bassissimo, dove si vende tutto a crediti con la libretta».

 

Basta guadare le cifre. A partire dalla metà dell’Ottocento ebbe inizio la «grande emigrazione italiana». È stato il fenomeno migratorio numericamente più imponente della storia occidentale, che non si è arrestato neanche dopo la fine delle guerre mondiali. Tra il 1945 e il 1950, il 45% dei maschi maggiorenni di tutti i ceti sociali e di tutte le regioni desiderava espatriare, non solo verso le Americhe e l’Australia.

 

Anche il Belgio – come gran parte del nord Europa – è stato meta di emigrazione. Complessivamente, dall’aprile del 1946 al 30 giugno 1950, da Milano – da dove partivano i treni speciali verso la stazione di Namur Charleroi – sono passati 83mila italiani diretti alle miniere, ai quali vanno aggiunte le famiglie, per un totale di oltre 100 mila persone. Erano lavoratori selezionati in un quadro di accordi tra il nostro Paese e il Belgio, siglati in un protocollo stipulato nel 1946 che prevedeva l’invio di duemila giovani sotto i 35 anni a settimana in cambio di un prezzo scontato sul carbone, all’epoca fonte principale di energia per alimentare l’industria nazionale.

 

Uomini la cui «Vita valeva meno del carbone», per parafrasare il titolo dell’ultimo libro scritto da Toni Ricciardi, studioso italiano e storico delle migrazioni presso l’Università di Ginevra, che racconta le vicende legate alla strage di Marcinelle. «Il fatto che l’Italia, prima ancora dei lavori dell’Assemblea Costituente, sottoscriva un accordo strutturato di emigrazione con il Belgio, a quelle condizioni e con quelle modalità, potrebbe rappresentare più che una mera supposizione. Sembrò fondare il suo futuro assetto istituzionale e politico su un assioma tristemente già noto, sperimentato e definito: braccia in cambio di merci» (Marcinelle, 1956. Quando la vita valeva meno del carbone, Donzelli 2016).

 

Come spesso avviene, dopo il lutto cambiò poco o nulla per gli italiani, se non piccole concessioni nelle condizioni di lavoro e l’introduzione di misure per prevenire altre tragedie.

 

Dalle prime ondate migratorie sono passati oltre cento anni. Si sono trasformate l’economia, la geografia demografica e il tessuto produttivo del nostro Paese. Secondo gli ultimi dati dell’Aire sono 4.636.647 i cittadini italiani residenti all’ estero. Un aumento costante nel tempo e che segna rispetto al 2014 un +3,3%. Nuovi emigranti che si aggiungono ad una presenza storica dei nostri connazionali residenti oltre confine.

 

Dopo un secolo di migrazione, negli occhi e nei sogni di chi va via ci sono ancora dei tratti comuni. La differenza non è nelle motivazioni, ma nei profili di chi lascia il proprio Paese. Prima a partire erano ragazzi poco istruiti, che vivevano per la stragrande maggioranza in piccoli paesini, borghi sperduti aggrappati sull’ Appennino, nel nord agricolo o nel Mezzogiorno con poche opportunità.

 

Oggi i volti sono anche quelli di professionisti, laureati, lavoratori altamente specializzati, senza distinzione di provenienza regionale o sociale. A dirlo è il rapporto Almalaurea. Si sta assottigliando la differenza tra il sud e il nord del Paese. I laureati residenti nel meridione, per esempio, sono quelli a spostarsi di più per studio e lavoro (il 53%) e solo l’11% dei nati al sud e rientrato nella propria terra.

 

Giovani che, a differenza dei loro predecessori, non vogliono tornare: il 42% ha dichiarato che questo sarà molto improbabile, quanto meno nell’arco dei prossimi 5 anni.

A loro si aggiungono i tantissimi ragazzi che cercano un lavoro qualsiasi, magari lo stesso che farebbero in Italia, ma che all’estero dà loro maggiori guadagni e prospettive.

 

È una nuova generazione figlia di una più semplice idea di mobilità, spesso lontana dallo stereotipo della «fuga dei cervelli», dentro un’Europa colpita duramente da una crisi economica che cerca una via nuova per rilanciare lo sviluppo.

 

Dinanzi a queste novità e segnali, in molti Paesi del Vecchio Continente si producono sentimenti di chiusura, un paradosso figlio della rimozione della propria memoria e del ricordo di come si ricostruì l’economia europea dopo le tragedie delle guerre mondiali.

 

La storia degli italiani all’estero, però, non è solo legata a drammi ed eventi luttuosi, ma è anche quella dell’orgoglio e dei tanti successi che hanno contribuito alla crescita ed al progresso non solo dei Paesi che li hanno ospitati, come ha ricordato il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: «L’immane sacrificio di coloro che sono partiti con la speranza di migliorare le condizioni di vita dei propri figli ha contribuito a costruire il presente del nostro Paese».

 

Non a caso il Sistema Paese italiano riconosce nei diritti e nella rappresentanza le nuove e vecchie storie, variegate e distribuite in tutti i continenti dalle Americhe all’Oceania, dei suoi connazionali.

 

Un unicum tra i Paesi occidentali in termini di garanzie dei diritti, promozione della lingua e difesa delle tradizioni che, anche in un’epoca di riduzione dei budget di spesa, il nostro Parlamento ha garantito. Come con la «Giornata nazionale del sacrificio del lavoro italiano nel mondo» che cade nell’anniversario di quel maledetto 8 agosto 1956. Storie di italiani che devono essere celebrate tanto più oggi, quando nel cuore dell’Europa il tema delle migrazioni divide le opinioni pubbliche, o in Italia con molti che dimenticano quando noi eravamo gli «altri» nei viaggi della speranza.

Fonte: l’Unità

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