“Il 27 gennaio 1945 furono abbattuti i cancelli del campo di Auschwitz. Ricordiamo chi è stato ucciso dall’odio e lottiamo ogni giorno per evitare che quello che è stato possa riaccadere. Mai più”. Lo scrive su Facebook il segretario del Pd, Nicola Zingaretti.
Andrea Martella, sottosegretario all’Editoria, su Twitter: “In tanti, in questi mesi, abbiamo fatto da argine al dilagare di aberranti episodi di antisemitismo nel nostro Paese. Questo #Giornodellamemoria è l’occasione per confermare la quotidianità di un impegno e per dire, con le parole di Liliana Segre, che l’indifferenza è complice”.
“C’era qualcosa di cui mio padre non parlava quando ero bambino. Io non sapevo, e non dovevo sapere. Papà aveva buchi sulle gambe, e un alluce mozzato; un numero singolare marchiato sul braccio e spesso molte lacrime, ma non una parola che spiegasse quei segni e quel dolore.
Per me bambino il suo numero sul braccio era un modo per ricordarsi il numero di telefono, le ferite sulla gamba erano la gambina malata come la chiamava lui, l’alluce era nato così, tutto ricurvo verso se stesso, come conchiglia chiusa segreta. Treblinka era un generale tedesco e quando appariva l’immagine di Hitler in televisione, quello era un porco, come papà urlava fino alle lacrime di fronte allo schermo. Ma io non sapevo chi fosse.
Poi venne la lettura. Da solo. Adolescente. Nel salotto con le pareti fatte di libri, vicino alle immagini dei tarocchi, appesi, il fato, l’impiccato, il ciabattino…
Libri devastanti. Con immagini insopportabili. Veri traumi appesi all’albero della conoscenza di un ragazzino figlio di un sopravvissuto di Auschwitz che cresce. Corpi nudi, ammassati, bambini, sigle, casacche, racconti di violenze, di torture, di cani sanguinari. Rarissime in casa le immagini della famiglia che non c’era più.
Auschwitz è stato per me, per lungo tempo, da bambino, un non-luogo della memoria della nostra famiglia. Una parola sconosciuta e da onorare. Sacra, terrificante e ignota. Un nome che vagava nell’aria di casa, quando la mamma mi allontanava perché papà piangeva, nei silenzi di fronte ad un nome, sulla lapide, fuori dalla sinagoga di Firenze, nelle urla quando qualcuno metteva il pane al contrario a tavola, quando il letto non era rifatto alla perfezione. Nella commozione per una musica o per una parola. Nel gelo quando incontravamo un tedesco della generazione di papà. Quando papà si raggelava nel guardarlo. Crescevo con la consapevolezza di un male esistito e terribile, inspiegabile e non spiegato; a cui dovevo l’assenza di nonni, nonne e zii e zie e cugini.
Il non-luogo della mia infanzia è diventato nel tempo, per molti nel mondo, non per tutti, il monumento immateriale all’abisso del ‘900. Che tutto aveva inghiottito di secoli di civiltà.
Auschwitz, il luogo dove la mia famiglia era stata cancellata tutta meno mio padre. Il luogo dove non ho potuto vederli.
Un luogo insieme mio, personalissimo, e universale.
In quel buco nero della nostra esistenza ci siamo tutti noi. Chi discende dalle vittime e chi dagli aguzzini, chi discende da chi si ribellò, e chi da coloro i quali furono indifferenti.
Chi passeggiasse oggi per le vie di Cracovia, in Polonia, troverebbe decine di offerte, ad ogni angolo di strada, di tour organizzati, con guida, con pullman modernissimi, per il Lager di Auschwitz-Birkenau, insieme ad una deviazione per le miniere di sale, insieme ad altre possibilità turistiche della zona. Un luogo offerto come altri alla possibilità del turista.
La memoria di ciò che è stato spero non lasci mai il posto al pellegrinaggio verso ciò che è stato. Sono cose diverse, e molto. Non dovremo mai idolatrare il ricordo, mai attribuire alla memoria un rito consolatorio, come se bastasse ricordare per essere. Non basterà, il ricordo si affievolirà, scomparirà un giorno, inevitabilmente anche l’ultimo testimone.
Ha scritto giustamente David Bidussa in un celebre saggio che tratta appunto di questo.
“Quando rimarremo soli a raccontare l’orrore della Shoah, non basterà dire “ Mai Piú” né rifugiarsi tra le convenzioni della retorica. Serviranno gli strumenti della storia e la capacità di superare i riti consolatori della memoria”
Ancora Bidussa:” La memoria non è un accadimento, è un atto che si compie tra vivi ed è volto a legare tra loro individui al fine di costruire una coscienza pubblica”
Ecco a noi serve dire, a 75 anni dall’apertura del portone di Auschwitz che di quella memoria e di quella pubblica coscienza abbiamo bisogno oggi. Non serve illudersi che la memoria, intesa come testimonianza di per se possa vaccinarci. Con altre forme, con altra intensità, verso soggetti diversi, noi dobbiamo dire che la violenza devastante tra esseri umani, in ragione del loro essere, delle loro radici o tradizioni, non è stata debellata, non completamente.
Che non è stato sconfitto l’antisemitismo, la sua millenaria radice, che l’insanabile sete di nemici da additare per spiegare i propri dolori è ancora vivace, che la voglia di ricercare la difesa dietro un proprio confine invalicabile è molto di moda; che il nazionalismo sembra ancora essere considerato da molti la medicina per il proprio disagio, per le proprie paure, per la propria rabbia. E con esso il razzismo.
Papà decise di iscriversi all’università molto tardi, molto dopo, già marito e tre volte padre, lo fece mantenendo la promessa che aveva fatto alla mamma, di studiare e laurearsi. Lo ricordo di notte, mentre noi andavamo a dormire, chino sui libri, nella cucina, cullato dal rumore della lavastoviglie. Lo fece, sicuro della forza della cultura per sconfiggere il mostro. Io lo considero un giuramento anche per me”.
Emanuele Fiano