Veltroni, lei 5 anni fa disse al «Corriere» che la crisi della democrazia avrebbe fatto emergere leadership inimmaginabili. Trump, Bolsonaro e nel loro piccolo Salvini e Di Maio le hanno dato grandi soddisfazioni.
«Non dimentichi Erdogan, che nell’impressionante silenzio del mondo sostiene che i media sono incompatibili con la democrazia. Ma non c’è proprio nessuna ragione di essere soddisfatti. L’alluvione sulla democrazia era prevedibile. Stavano accadendo una serie di cose analoghe a quelle di un altro tempo storico».
Si riferisce agli anni 30?
«Sì. La più grande e lunga recessione della storia. Crisi dei partiti, della politica, delle istituzioni. La più invasiva rivoluzione scientifica e tecnologica: qualcosa al cui confronto la macchina a vapore è uno scherzo».
Addirittura?
«I computer hanno cambiato le classi sociali, le forme di conoscenza, le relazioni tra le persone. Hanno cambiato il tempo della vita, velocizzando tutti i processi; e la lentezza della democrazia appare un ostacolo. Vuole la cultura democratica capire che è in gioco la più grande conquista di pace e di prosperità succeduta alla Seconda guerra mondiale, l’Europa? E che la parola Europa oggi distingue i democratici dai nazionalisti sovranisti?».
L’Europa oggi è considerata un fattore di crisi, non di prosperità.
«A un certo punto del decollo dell’aereo Europa, sono saliti a bordo quelli che hanno cominciato ad aprire i finestrini».
A chi si riferisce?
«Il gruppo di Visegràd ha rallentato tutte le decisioni. E l’egoismo di certi Stati ha fatto il resto. Ma cosa sarebbe della nostra economia se non ci fosse la Bce? Se non ci fosse l’euro? Ora è in corso un gigantesco processo di disarticolazione dell’Europa. L’esito dell’89 non è la fine della storia, il trionfo della libertà; è una riorganizzazione geopolitica al cui interno l’Europa come continente e mercato unico non è contemplata».
Nel maggio prossimo l’Europa vota. Come deve presentarsi la sinistra?
«La prima cosa che la sinistra deve mettere in campo è la parola Europa. Una parola che le nuove generazioni considerano naturale. Chi ha vent’anni non sa cosa siano la lira o le frontiere. Altiero Spinelli si è inventato la costruzione dell’Europa guardando dalla sua finestra di Ventotene – dove l’aveva rinchiuso il fascismo un continente in fiamme. Nulla di più utopico. Ci abbiamo messo tanto, siamo passati attraverso il Muro, Jan Palach, Franco, il terrorismo; ma ce l’abbiamo fatta. Se a maggio dovesse prevalere un fronte sovranista e nazionalista, l’Europa finirà. Finirà l’euro. Dazi e muri, Europa divisa e fastidio per ogni diversità. Le ricorda qualcosa?».
Non sarà anche colpa vostra?
«Ci sono parole che la sinistra ha scordato. Parole europee come formazione, ambiente, sicurezza sociale».
Sembrano slogan da convegno.
«No. Sono i cardini del futuro. Devono diventare la nostra ossessione. I nuovi lavori richiederanno un altissimo livello di formazione. Uno Stato che investe su formazione, scuola, ricerca, produrrà forza lavoro; uno Stato che non investe produrrà povertà».
E l’ambiente?
«Sono impressionato dalla scomparsa dell’ecologia dal dibattuto politico italiano. Cosa c’è di più contrastante con l’assurdità del sovranismo nazionalista che non l’ecologia? Si guardi attorno: 12 morti a Maiorca, in Sardegna crollano iponti, migliaia di migranti sono mossi dalla desertificazione, uragani nel Mediterraneo. Ha visto la foto dell’orso isolato sul triangolo di ghiaccio? È la nostra immagine, la nostra metafora. Noi, a differenza dell’orso, dovremmo capirlo che ci si sta sciogliendo il mondo intorno. Ma il tema viene rimosso o contrastato. Ci sono città che andranno sott’acqua, e noi facciamo dei tweet».
La gente non pensa allo scioglimento dei ghiacci, pensa al lavoro che non trova, al conto in rosso, ai servizi che mancano.
«Pensi quanto lavoro vero darebbe la riconversione ecologica dell’economia. Il lavoro è di nuovo il dramma del nostro tempo. Dalla crisi del ’29 Si uscì con il New Deal. E oggi? Non basta erogare fondi, bisogna contrastare la principale minaccia alla qualità della vita: la precarietà. Vuole la sinistra aggredire questo tema? Capire che bisogna creare nuove condizioni di sicurezza sociale? La manifestazione del Pd si intitolava “l’Italia che non ha paura”. Bene, l’Italia che non ha paura deve parlare all’Italia che ha paura. Non penso ai timori suscitati dalle campagne organizzate scientificamente per la diffusione della paura. Sto parlando della paura che c’è in ogni casa: perdere il lavoro, non trovarlo, girare in città dove ci sono più saracinesche chiuse che aperte. Formazione, ambiente, sicurezza sociale: ecco le cose con cui la sinistra potrebbe andare in controtendenza, senza avere paura di essere se stessa. E rilanciando l’idea di una democrazia che decida, veloce, trasparente».
Le riforme istituzionali sono state bocciate dal 60% degli italiani.
«Non è stato bocciato il tentativo di riformare le istituzioni, ma il modo in cui lo si è presentato. Gli italiani non sarebbero contrari a una riforma per cui si danno tempi certi per approvare o respingere una legge, si riduce il numero dei parlamentari, si fanno vivere organismi diffusi di partecipazione. Nelle scuole. Nelle fabbriche. E nei consigli d’amministrazione, dove i lavoratori dovrebbero essere rappresentati».
Da Cacciari a Calenda, si è parlato di presentare alle Europee un fronte che vada da Macron alla sinistra.
«Se è una lista europeista aperta, guidata da personalità indipendenti e autonome, che raccolga insieme con il Pd tante energie della società, la mia risposta è sì. I capilista non devono essere divisi tra le correnti del Pd, ma scelti nel meglio della società italiana. A Strasburgo andavano Bruno Trentin, Giorgio Napolitano, Elena Paciotti, Giorgio Ruffolo, e qualche anno prima Alberto Moravia e Altiero Spinelli. Apriamo porte e finestre; la gente verrà. La domanda di politica e di sinistra c’è. E l’offerta che manca».
Ci spieghi meglio che tipo di lista ha in mente.
«Una lista che assomigli a come immaginavo il Partito democratico: un luogo cui persone, associazioni, movimenti gruppi potevano aderire, restando se stessi. Le primarie dovevano servire a sintetizzare tutto questo. Poi il Pd è stato prosciugato e occupato dalle correnti; e il meccanismo delle primarie ne ha sofferto».
Lei sosterrà Zingaretti o Minniti?
«Sono anni che non sostengo un candidato. Sostengo un’idea di movimento democratico in Italia, vitale oggi. E credo che questo debba avvenire con una radicale discontinuità e una sincera e inedita unità che persone come Zingaretti, Minniti e Richetti possono insieme garantire. Quando sento dire più volte l’espressione “me ne frego” o “chi si ferma è perduto”, e non nell’accezione dantesca ma in quella ducesca, ripeto a me stesso che le parole contano, che dietro le parole ci sono i fatti. A Lodi i bambini immigrati mangiano in una stanza diversa da quella degli altri bambini. Sono cose enormi. Se non daremo una risposta all’altezza, domani ci sembrerà normale quello che oggi non lo è. I precipizi della storia sono cominciati scendendo gradini, non cadendo in un vulcano. E un giorno i libri di storia scriveranno che, di fronte a tutto questo, a sinistra la parola più pronunciata era “candidatura”».
Cos’è oggi la sinistra?
«Anni fa si discusse perché in un congresso avevo fatto scrivere il motto di don Milani, “I care”: il contrario di “me ne frego”. Ecco la differenza tra sinistra e destra. Oggi la sinistra ha perduto questa intensità, questa capacità di condividere il dolore degli altri. La sinistra dovrebbe essere terra e cielo. Terra: stare nel territorio, nei quartieri, nelle fabbriche, nelle università; condividere e farsi carico del dolore sociale. Cielo: i valori, le grandi idee, i pensieri lunghi, le cose per le quali ciascuno di noi ha deciso di impegnarsi nella vita pubblica. Ma invece di stare in terra e in cielo, la sinistra è evaporata in una grande nube, dove è infuriata la zuffa autoreferenziale tra chi vorrebbe fare il Macron e chi vorrebbe fare il Corbyn».
I 5 Stelle si divideranno?
«I dirigenti non credo. Ma nel loro elettorato c’è malessere. Elettori di sinistra che li hanno votati li ritrovano in un governo il cui capo è Salvini, che sta tradendo tutte le loro promesse elettorali su Ilva, Tap, condono fiscale… E poi il fastidio per le autonomie istituzionali, cardine della democrazia, che o obbediscono o devono tacere».
Si tornerà a votare presto?
«Hanno promesso tutto a tutti. Salvini sa benissimo che le promesse mirabolanti non si tradurranno in realtà: che 500 mila migranti non saranno cacciati e che la povertà non sarà abolita. In quel momento chi appariva contro il potere apparirà il potere. E questo fischia di avvenire nel cuore di una tempesta finanziaria di cui si stanno incoscientemente creando le condizioni. Non escludo che allora si torni a votare. La Lega cercherà di sfruttare l’onda che le promesse hanno suscitato. E il Pd dovrà decidere con chi coalizzarsi».
Scusi, lei non era quello della vocazione maggioritaria?
«Lo sono, non lo ero. La vocazione maggioritaria si declina
però in un modo corrispondente al tempo; altrimenti rimane la vocazione minoritaria in cui siamo precipitati. Oggi íl Pd deve aprire se stesso e cercare alleati: alla sua sinistra, tra gli ecologisti, nel pensiero liberale, nel cattolicesimo democratico».