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Minniti: “Ricostruire un rapporto con la gente: ricominciare da qui”

Nel salotto spartano della casa, Minniti riflette sui fischi di Genova, sul futuro della sinistra. L’analisi sul governo gialloverde è spiazzante da subito per la declinazione in forma moderna di categorie antiche: «Da ex comunista posso spiegare tecnicamente il fenomeno Salvini».
 

In che senso?

 
«Leninismo puro».
 

Sta scherzando?

 
«Affatto. Adesso hanno ed esibiscono l’aura sacrale del nuovo, usano come narrazione maestra la sostituzione del vecchio, che poi saremmo noi, ma sono tutti abilissimi professionisti della politica».
 

Sia il Carroccio sia i M5S?

 
«Esatto. Pensi a Salvini: è cresciuto in una radio di partito, come i vecchi comunisti a l’Unità. È figlio di Bossi, del suo leaderismo, della cultura del capo politico, della pattuglia rivoluzionaria che occupa lo Stato e lo fonde con il partito senza distinzione di ruoli. Noi siamo diventati prima socialdemocratici e poi democratici, loro sempre leninisti».
 

Mi faccia un esempio.

 
«È sotto gli occhi di tutti anche se non lo vede nessuno. Salvini da ministro dell’Interno ha fatto una conferenza stampa sull’Aquarius da via Bellerio… ».
 

Vero.

 
«Adesso s’immagini cosa sarebbe successo se Marco Minniti avesse fatto una conferenza stampa sull’ordine pubblico al Nazareno, con dietro le spalle un simbolo del Pd e sul bavero la cimicetta del partito… ».
 

Lo dice per mettere in mora la Lega?

 
«Lo dico per spiegare cosa sta accadendo in Italia e nelle sue istituzioni».
 

Ovvero?

 
«Salvini è sia capo politico sia ministro dell’Interno, è il leader di una parte ma dovrebbe essere anche il garante di tutti. Rappresenta lo Stato ma fa tweet contro gli avversari politici del suo partito. Questa è una novità che rompe qualsiasi codice repubblicano precedente».
 

Tutti i governi hanno avuto ministri dell’Interno politici.

 
«Ma pensi alla Dc che, dopo l’errore di Tambroni, scelse sempre un outsider: Cossiga, Scalfaro, Scotti… Quando arrivò un uomo di corrente, Gava, fu il segno che finiva un’epoca. Persino nel centrodestra Pisanu era autonomo rispetto a Berlusconi».
 

Anche Di Maio che ha trent’anni le pare «un professionista della politica»?

 
«Di Maio è un militante antisistema che ha vissuto la parte più importante della sua formazione a pane e politica».
 

Lo dice per insinuare che non dureranno?

 
«Al contrario. Lo dico perché vorrei spiegare, prima di tutto ai miei compagni, che questa vittoria non è un incidente della storia, una finestra che si apre e si chiude nello spazio di un mattino».
 

E cosa è, allora?

 
«È un patto politico che diventando alleanza si struttura e si rafforza ogni minuto che passa».
 

Come lo descriverebbe questo accordo?

 
«A me pare una cosa un po’ vecchia e un po’ nuova: un pentapartito del terzo millennio con il web, i selfie e la Rete».
 

Oddio.

 
«Però il principio che muove tutto è «competi-e-governa», proprio come quando De Mita e Craxi facevano a testate, capitalizzavano i consensi, e poi rimettevano tutto insieme con un caminetto politico».
 

Qui il caminetto non c’è.

 
«D’accordo, si ricompongono con una chat su WhatsApp. Ma il modello dí conflitto competitivo è quello. Il governo che vuole far sembrare di avere tutto dentro: destra e sinistra, istituzionali e movimentisti».
 

Torniamo alle differenze tra lei ministro dell’Interno e Salvini.

 
«Con un aneddoto».
 

Quale?

 
«A Napoli, nel 2017, sono annunciate barricate contro Salvini. E a un certo punto, come se non bastasse, arriva il veto di De Magistris che nega la piazza al leader della Lega».
 

E lei?

 
«Io faccio un casino per farlo parlare. Chiamo il prefetto, emaniamo una misura straordinaria per motivi di ordine pubblico, e per ventiquattr’ore – di fatto – sequestriamo la piazza per consentire alla Lega di fare la sua manifestazione».
 

Perché me lo racconta oggi?

 
«Per dire che come ministro consideravo il mio primo dovere garantire l’agibilità politica del leader che era più distante da me».
 

E oggi questo non accade?

 
«Io non credo che oggi Salvini, che all’epoca devo dire mi ringraziò con grande lealtà pubblicamente, dia questa stessa impressione. Ma non perché sia cattivo. Perché non separa l’idea del partito da quella dello Stato».
 

Chi deve essere il nuovo segretario del Pd?

 
«No, non ragiono così».
 

Lei è con Zingaretti, con i renziani?

 
«A questo dibattito non sono molto interessato. Anche perché il punto non è questo».
 

E cosa è più importante allora?

 
«Fare il congresso subito».
 

Avevano deciso di posticiparlo.

 
«Abbiamo perso durissimamente le elezioni. Il Paese cade a pezzi, noi non riusciamo a stare in campo. Ecco perché va convocato subito un congresso: per decidere chi sei, dove devi andare, e con chi».
 

Elisabetta Gualmini ha acceso il dibattito dicendo: «Il Pd deve cambiare nome, serve una nuova Bolognina».

 
«Oddio. Su questo tema credo di avere già dato, di avere una competenza in materia».
 

E che ne pensa?

 
«Che facemmo la Bolognina fra le macerie del muro di Berlino, mentre un secolo finiva. Cambiare nome al Pd sarebbe una pallido remake. Nemmeno utile, per giunta, perché sarebbe come dire che ci dobbiamo vergognare del nostro riformismo di governo. E io non penso che le cose stiano così».
 

Renzi cosa deve fare?

 
«Io non amo il dibattito fatto su questo e su quello, sui nomi e non sui problemi».
 

Ma Renzi non è un nome, è una stagione politica.

 
«Matteo è un leader. Ed è giovane. Però io continuo a credere che sia davanti a un bivio».
 

Da un lato la segreteria, dall’altro la tv?

 
«Noooo… È il candidato che ha perso le elezioni e se ne è assunto lealmente la responsabilità. Se vuole mantenere il profilo di leader – ed è del tutto legittimo – deve capire che ora c’è bisogno di una fase con altri protagonisti. Un’altra fase politica».
 

Altrimenti?

 
«Può essere un capocorrente. Anche da subito. Ma se sceglie questa strada deve sapere che l’altra è chiusa per sempre».
 

E Minniti? Può essere leader?

 
«Io? Io a dire il vero quando si è andati al voto mi sarei voluto ritirare».
 

Non ci credo.

 
«Ho compiuto vent’anni dalla mia prima esperienza di governo, dopo essere entrato a Palazzo Chigi e aver giurato per la prima volta nel 1998».
 

Chi c’è in giro con questa anzianità di servizio?

 
«Mi sento un po’ un dinosauro, non lo so se ci sono altri. A destra forse solo Berlusconi».
 

Da sottosegretario a ministro.

 
«E questo lo devo a Gentiloni. E a Renzi, che mi volle fortemente al Viminale».
 

Bello dirlo adesso.

 
«Non sono uno che dimentica magari perché l’altro finisce in disgrazia. Contemporaneamente, sono uno dalle fortissime convinzioni».
 

I fischi di Genova l’hanno impressionata?

 
«Moltissimo. Se ci fosse stata una delegazione sarei andato. Però ho parlato a lungo con Roberta (Pinotti, ndr.) e apprezzo il suo coraggio, e quello di Martina, per essersi assunti quella responsabilità».
 

L’onorevole Anzaldi, suo compagno di partito, ha scritto che si trattava di un claque grilloleghista.

 
«lo non credo che si possa organizzare una claque simile. Però posso dire che questa idea che i fischi sono una infamia, un danno per il politico, è un’altra malattia del tempo dei social».
 

Quanti fischi ha preso nella sua carriera?

 
«Tanti. Quelli indimenticabili, a Tunisi. Quando Craxi stava per morire, da sottosegretario, ci fu una trattativa per un possible ritorno».
 

Non l’ha mai raccontato.

 
«Lo sto raccontando adesso. Interrogammo i magistrati di Milano che ci dissero: «Torni pure, ma sappia che deve passare per San Vittore». Avrebbero applicato poi misure cautelari».
 

E Craxi non tornò.

 
«Ovvio. Morì poco dopo. D’Alema mandò proprio me e Dini ai funerali».
 

Cosa accadde?

 
«Ricordo di aver attraversato la chiesa in un boato di fischi, insulti, sputi… Di aver sentito le gambe che mi dicevano di correre, mentre guardavo sgomento facce conosciute».
 

Ma mantenne il passo lento.

 
«Non so come ho fatto, fino alla fine. Al ritorno qualcuno scrisse che ero andato a omaggiare un latitante. Sputi, metaforici e non, da ogni parte. Mi son reso conto poi che era una ordalia che sanava simbolicamente le monetine del Raphael. Doveva accadere. E io sono contento di aver attraversato quelle forche caudine. Mi ha reso più forte».
 

E se i fischi di Genova sono veri, e vengono anche dal popolo della sinistra, cosa vogliono dire?

 
«Lega e M5s cercano sempre nuovi nemici. E hanno
un piano che porta dritto alle europee, dove c’è un nuovo supernemico, Bruxelles. Usano la rabbia e la paura come propellente politico».
 

Anche lei diceva che bisognava saper ascoltare la rabbia dei cittadini.

 
«Sì, e forse lo abbiamo capito troppo tardi: ma loro usano quella rabbia per tenere incatenate le persone alle loro paure. Noi dobbiamo usarla per offrire loro un progetto di cambiamento».
 

E da dove si riparte?

 
«Dall’Italia di oggi così com’è: da chi non ci ha votato. Non c’è un’altra Italia, come noi la immaginiamo. Con quest’Italia, con i suoi sentimenti, con le sue contraddizioni, le sue ostilità, noi dobbiamo fare i conti».
 

Ma voi date l’impressione di non esserci.

 
«Per questo dobbiamo cambiare rotta. Ricostruire un rapporto con la gente: abbattere il diaframma che ci separa dalla società, cambiare radicalmente».
 

Come?

 
«C’è stata una rottura sentimentale. Siamo percepiti distanti dal popolo, come fossimo un’élite, un’aristocrazia. Dobbiamo ricominciare da qui. È un po’ più difficile che cambiare nome».

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