Un partito conflittuale, un orizzonte incerto, il sovranismo trionfante: la proposta dell’ex ministro Carlo Calenda è superare il Pd e presentarsi alle prossime elezioni europee con un Fronte repubblicano. Alternativa? «L’estinzione definitiva di 60 anni di storia».
Difetti, pregi e biografia minima di Calenda Carlo nella sintesi di Carlo Calenda medesimo: «In famiglia mi dicevano tutti “devi crescere in fretta” e, seguendo l’esempio di una madre che mi mise al mondo quando aveva 20 anni, ho finito per dar loro retta, l’ho superata e ho fatto una figlia a 16, mentre mi bocciavano in prima liceo. Mi sarei fatto male, ma Tay mi ha salvato la vita. Ho smesso di indossare i panni dell’anarchico scapestrato indisposto a seguire le regole e sono dovuto diventare uomo. Sono incline a vedere le cose bianche o nere e quando esprimo un’opinione tendo a essere assolutista e non di rado arrogante, però credo fermamente nella passione e un certo cinismo, quello degli intellettuali che con disincanto dicono “tanto la politica è immutabile”, non mi appartiene. È lo stesso snobismo che spingeva Gianni Agnelli ad affermare che l’amore fosse una cosa per cameriere. Una frase detestabile. Preferisco di gran lunga il motto di Chesterton: “Chi nasce col cuore duro finisce con il cervello tenero”. Vale anche nella politica».
Nel solco dell’anticipo, Calenda sostiene che il tempo per l’epifania della sinistra di domani stia scadendo: «C’è bisogno di trovare un’identità nuova, un progetto, un New Deal che permetta a una comunità , che si disse orgogliosamente comunista fino alla caduta dell’ultima pietra del Muro di Berlino e liberista dal minuto successivo senza nessuna elaborazione culturale, di rinnovarsi, ripensarsi e non estinguersi per sempre». Per spiegare nessi e ragioni della sofferenza, Calenda ha scritto un libro che fin dal titolo, Orizzonti selvaggi, fissa confini e soluzioni del problema in un far west in cui ogni colpo può risultare fatale. «Il tema è profondo e ha a che fare con la tenuta delle democrazie liberali in un Occidente che in Europa come negli Stati Uniti vive una crisi radicale determinata dal fallimento del suo progetto egemonico post ’89. Disuguaglianze, ignoranza, instabilità e paura del futuro. Il mondo non è diventato piatto, la politica sì».
Quali sono le responsabilità della sinistra in questa crisi?
«Sono di un’intera classe dirigente che all’indomani della caduta del Muro ha pensato di potersi affidare completamente alla meccanica del mercato e dell’innovazione per creare sviluppo e benessere. Mentre oggi, per la prima volta dalla rivoluzione scientifica, l’uomo pensa che il progresso lo assoggetterà esattamente come è accaduto con la globalizzazione e quindi ne rifiuta l’idea alla radice: dai vaccini ai robot. Restituendogli
una connotazione fortemente negativa. I populisti dicono: “Ti parlo delle ingiustizie e delle paure del presente dagli immigrati ai robot”. Il progressista risponde: “L’evoluzione tecnologica ci porterà in un futuro idilliaco”».
Per la sinistra il presente non conta?
«È poco rilevante, così come la paura. Se la provi sei in qualche modo indegno. Sa qual era lo slogan della manifestazione del Pd di domenica scorsa? “Per l’Italia che non ha paura”. Il sottotesto è “l’Italia che ha paura si fotta”. La retorica dei gufi ha arruna77ato il Pd aiutando a dimenticare in fretta la pur decorosa esperienza di governo. In piazza sono andato lo stesso, ma avrei scelto un altro slogan».
Riadattare il verso di De Gregori non è stata una buona idea?
«Mi chiedo: “Ma che senso ha?”, “Ma perché e per chi facciamo politica?”. Dal mio punto di vista, se c’è ancora una ragione di esistere della
sinistra, va fatta per chi non possiede gli strumenti culturali e per difendere chi ha paura, non chi non ce l’ha. Purtroppo da 30 anni i progressisti
sono impegnati ad alimentare un distacco emotivo con l’elettorato che oggi presenta il conto. Se vogliamo ricostruire un pensiero progressista, riconoscere un diritto di cittadinanza alla paura è fondamentale».
Da dove si parte?
«Nel constatare che il progetto egemonico che considera progresso tecnologico e globalizzazione come fenomeni naturali non solo è morto per sempre, ma sta uccidendo la politica».
Da cosa nasce questa convinzione?
«Dall’idea che la politica non sia una competenza utile ad applicare teoria economica e innovazione a colpi di foto con i guru della Silicon Valley, ma viva sulla rappresentanza. Ricorda cosa dissero di Di Maio alla vigilia delle elezioni alcuni esponenti del Pd?».
Lo irrisero.
«Lo irrisero sostenendo che uno che vendeva bibite allo stadio non potesse presentarsi come capo del governo. Una follia. La politica non è un colloquio di lavoro, ma vive da
sempre sull’identificazione: una delle cose più potenti che esistano. Alla gente non importa se Di Maio sia bravo o meno, ma che sulla sedia ci sia uno di loro. Perché negli ultimi decenni non hanno sentito di essere rappresentati da chi doveva essere “competente”. La frattura tra rappresentanza e competenza va ricomposta. Quando Salvini dice “Capisco se mi dite che vi fa paura avere 30 nigeriani in giro per il paesino”, la reazione, se la sinistra non vuole morire, non può essere “voi siete razzisti”».
Perché?
«Perché Salvini è il sintomo, non la causa. I razzisti esistono in tutte le
società e al limite la responsabilità di Salvini è quella di sdoganarli, ma di sicuro la sensazione di insicurezza non l’ha creata lui. Se non ci preoccupiamo di spiegare il presente scompariremo. Se continueremo a litigare su Renzi, Gentiloni o Zingaretti faremo la stessa fine».
La sinistra fatica a creare identificazione?
«Se nessuno si riconosce in un pensiero è perché forse un pensiero non esiste più. La sinistra è stata espressione diretta di una politica motivazionale il cui unico obiettivo era convincere la gente ad andare verso il futuro secondo le regole della meccanica del mercato e dell’innovazione. Non bisognava far altro che motivare e imporre un modello di interesse che avrebbe forse tolto qualche tutela in cambio di innegabili benefici per tutti. Le tutele sono saltate, i benefici non sono arrivati e a un certo punto le persone si sono prima domandate: “Andare avanti dove?” per poi rifiutare qualsiasi imposizione».
Premiando Salvini e Di Maio.
«D’altra parte come fai a dire a un tornitore dell’Embraco che in fondo sì, la Slovacchia ci ruba le fabbriche e i posti di lavoro a costi infinitamente più bassi beneficiando dei fondi dell’Ue, però è positivo perché
quando crescerà saremo tutti allineati, potremo finalmente vender loro i nostri prodotti e per lui si apriranno infinite opportunità nella societÃ
della conoscenza? È un concetto così ideologico, così astratto e così intriso di un determinismo storico che non avrebbe azzardato neanche Marx da risultare, a essere benevoli, indigeribile».
C’è chi dice:
«Le scelte del mercato non si commentano».
«Sono in disaccordo. Puoi avere un comportamento legittimo dal punto di vista del mercato, ma ignobile sul piano sociale. Quello che non è accettabile è il dogma. Noi abbiamo respinto quello religioso con la Rivoluzione Francese e di certo non arretriamo di fronte al mercato solo perché lo intimano Alesina e Giavazzi. I liberali sono diventati ideologici, hanno smesso di difendere le regole del mercato per sostenere un mercato senza regole».
Gli elettori di Lega e M5S pensano che la sinistra non se ne occupi più.
«Ma governare per il popolo è molto più complesso che lanciare slogan e rappresentare rabbia o paura. La manovra del popolo è un buon esempio. Mette l’Italia a rischio, premia gli evasori fiscali, dimentica i giovani, gli investimenti, la scuola».
La risposta dei progressisti?
«I progressisti e non solo in Italia sono completamente persi, ancorati al ‘900, bloccati. Bisognerebbe ripensare tutto, ma per questo dibattito nel Pd non c’è posto. Non c’è uno che si ponga il problema. Non gliene frega niente a nessuno. Nel partito non sono capaci di discutere di niente, l’unica
cosa che pensano si possa fare è girare le lancette della storia e dire “siamo sempre stati socialdemocratici”».
C’è poca elaborazione?
«Questo è un partito che a un certo punto della sua storia ha iniziato a dire che Kennedy e Berlinguer erano la stessa cosa. Ora, Kennedy era un feroce anticomunista, Berlinguer ha dichiarato chiusa la spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre nell’81. Metterli insieme denuncia una confusione culturale che racconta bene come la storia della sinistra italiana sia tutta un salto in avanti e uno indietro».
Lei che salto propone?
«La fine dei casting e la creazione di un Fronte repubblicano che racconti altro da ciò che la sinistra dice a chi non vuole più ascoltarla».
Provi a raccontarne una diversa.
«Di Maio ha detto: “Aboliremo la povertà ” e ha detto una cazzata. Ma provare a ribaltare il quadro è doveroso. Seguirei volentieri chi dicesse:
“Voglio abolire l’analfabetismo e metterò in campo tutte le risorse possibili per raggiungere l’obiettivo in modo che chi ora si sente ai
margini domani possa ottenere un futuro più roseo”. Questo è il ruolo della sinistra e per agire non ci vogliono 30 anni, ma 10 mesi».
Lei nel Pd si sente cordialmente detestato?
«Cordialmente non so, detestato senz’altro. Non mi hanno mai coinvolto in niente, mi hanno preso in giro per aver cercato di organizzare una cena. Ma lei lo sa cos’è il partito a Roma? È un posto in cui non ti avvertono delle riunioni pensando di farti un dispetto. Mentre le enormi onde della modernità ci vengono addosso, i circoli romani sono dominati dall’appassionante dibattito tra renziani e antirenziani. È una
guerra per bande che deve finire. Questa gente va asfaltata perché a nessun uomo raziocinante può essere chiesto di stare li dentro. Mettiamoci
in testa una cosa: siamo al 17 per cento non a causa di Renzi o Gentiloni, ma perché la gente è f
uribonda».
Pd va superato?
«Sarà inevitabile. Io propongo di andare alle Europee con una grande lista che il Pd contribuisca a fondare perché la scelta di domani sarà tra chi vuole uno Stato identitario e chi una democrazia progressista, tra chi sta con i Paesi fondatori o con Orban, con le democrazie liberali o con Putin».
Se non dovessero darle retta?
«La mia scommessa non è candidarmi alla segreteria del Pd, ma dare un contributo a superare il Pd in modo intelligente. Se non accadrà mi
ritirerò dalla vita politica. Mi sono comunque dato un orizzonte temporale: tra gennaio e febbraio capirò. Quindi se il Fronte non si farà , se
non altro per ragioni economiche, tornerò a fare il manager».
Ha parlato di problema psichiatrico.
«Collettivo. Un posto in cui persone che hanno contribuito a promuovere un referendum costituzionale, pur tragicamente sconfitto, ora non riescono a sedersi insieme in una stanza. Capisce la follia delirante, la presunzione, l’arroganza di una cosa del genere? A me Renzi ha fatto qualsiasi cosa, ma se mi devo sedere con lui lo faccio».
Renzi tende a vedere il nemico ovunque. È un atteggiamento puerile?
«Un po’ lo è, certo. Molti esponenti del Pd stanno facendo la figura dei buffoni. Pensano
di essere dentro House of Cards».
Con sua madre, Cristina Comencini, che rapporto ha?
«Forte e conflittuale perché gli artisti sono insopportabili ed egotici almeno quanto i politici, ma anche bello e molto profondo. Quando sono diventato ministro mi ha dato un consiglio importante: “Cerca di parlare molto di quello che fai e non di te stesso”. Ora contravvengo al suo consiglio».
Avrebbe potuto fare l’attore, come da bambino, sul set di Cuore.
«Ero un cane e per fortuna, per la gioia di mio nonno, Luigi Comencini, non è successo. Era un uomo di famiglia e un combattente straordinario. Ha avuto il Parkinson e ha lottato per quasi 40 anni».
Perché ha reso pubblica la malattia di sua moglie?
«Mi ha fatto piacere. Ho deciso insieme a mia moglie di parlare della sua malattia perché avevo preso l’impegno pubblico di presentare il Fronte in giro per l’Italia. Non ci potevo andare, ma mia moglie, la persona più coraggiosa che conosca, mi ha detto: “Perché inventarci delle scuse, la malattia non è una colpa”. Non abbiamo scelto di nascondere le cose, ma neanche di metterci su un Truman Show. Noi due, i miei figli, la sua famiglia. La lotta con la malattia riguarda noi e basta».
Ha scritto un libro per raccontare la paura nell’anno della sua paura.
«È vero, e la sa una cosa? Se avessi fatto come i progressisti in questi anni dicendo a mia moglie: “L’unica cosa di cui avere paura è la paura” mi sarei preso un meritato calcio nel culo. La paura esiste, come la malattia. La puoi affrontare con più o meno grinta, ma negarla davanti a chi la prova davvero è un insulto».