«Ero e rimango socialista. Non mi ritiro dalla politica». Nel nuovo ufficio affacciato sui giardini delle Tuileries, con il labrador Nemo che passeggia tra le stanze, François Hollande appare calmo, affabile, seppur meno gioviale e spiritoso di come l’avevamo conosciuto qualche anno fa. Nel libro appena pubblicato, Les leçons du Pouvoir, l’ex presidente tira le somme del quinquennio all’Eliseo. Ripercorre i momenti più forti, tra cui gli attentati a Parigi del 2015, la guerra in Mali, mentre glissa sulle foto col casco, la separazione da Valérie Trierweiler, scaricando sui giornalisti una parte delle colpe. «Ho fatto scelte giudicabili ammette ma noto che nel mio caso i media hanno rotto una certa tradizione francese di rispetto della vita privata». Hollande rivendica di aver lasciato un Paese con i conti risanati e in ripresa, «senza aver mai applicato l’austerità». Per la riabilitazione è presto. «Spero che un giorno i francesi mi guarderanno in modo diverso». Uno dei suoi rimpianti è non essere intervenuto in Siria contro Assad nell’estate 2013 a causa dell’improvviso voltafaccia di Barack Obama. «Quella rinuncia ha avuto conseguenze notevoli sull’equilibrio non solo della regione ma del mondo».
Che cosa sarebbe cambiato?
«Tutto. La scelta di privilegiare i negoziati non ha fatto scomparire le armi chimiche del regime. Vladimir Putin ha interpretato il dietrofront di Obama come un’opportunità per spingersi più avanti in Siria e in Ucraina. E l’opposizione contro Assad è stata sommersa dagli islamisti».
L’intervento occidentale arriva troppo tardi?
«Approvo la decisione francese di partecipare all’attacco. Vediamo però che il regime ha riconquistato militarmente parte del territorio. Turchia, Russia, Iran sono pronti a spartirsi la Siria. Uscire dalla crisi è diventato più difficile».
Perché Obama si è tirato indietro all’ultimo minuto?
«È una scelta che non ho condiviso seppur comprensibile. Si era impegnato davanti al popolo americano a non varare nuovi interventi militari».
Alla fine Trump si sta rivelando un alleato più affidabile per la Francia?
«Trump è già intervenuto in Siria nell’aprile 2017. All’epoca stavo ancora all’Eliseo, avrebbe potuto propormi di partecipare. Non l’ha fatto. Adesso lancia una nuova operazione ma al tempo stesso annuncia di voler ritirare i suoi soldati. Non vorrei che questa rappresaglia nasconda un disimpegno militare più ampio».
Macron riesce a far ragionare l’imprevedibile leader Usa?
«Nella diplomazia ci sono le relazioni personali, la qualità degli argomenti, l’intelligenza di capire le situazioni. Ma non si può far niente davanti a un presidente guidato soltanto dai propri interessi».
Trattare con Putin è difficile?
«Combina seduzione e brutalità. È al tempo stesso convincente e minaccioso. Sono estremamente lucido su ciò che pensa dell’Europa e dell’Occidente: li guarda come corpi deboli, moralmente fiacchi, senza coesione, in declino. E infatti è legato alle estreme destre ovunque in Europa. Soltanto una parte dell’estrema sinistra non l’ha ancora capito».
Nel libro descrive Angela Merkel come una cancelliera meno dogmatica di ciò che alcuni pensano.
«Non eravamo sempre d’accordo, in particolare sul sostegno alla crescita e all’occupazione, sull’austerità della politica imposta ai popoli. Ma siamo sempre stati animati dal supremo interesse europeo. Dico spesso: Madame Merkel si prende il suo tempo ma alla fine fa sempre la scelta giusta».
L’Italia è stata lasciata da sola sullacrisi dei migranti, con conseguenze politiche che sono sotto gli occhi di tutti. Perché l’Europa non ha fatto nulla?
«È vero. Matteo Renzi non ha mai smesso di allertarci, chiedere una revisione degli accordi di Dublino. L’ho sostenuto per quanto ho potuto ma ha vinto la politica dello struzzo. L’Europa ha nascosto la testa sotto alla sabbia».
Era il suo unico alleato?
«È così. E lui ne aveva abbastanza di vedere tutti questi consigli europei che non producevano mai decisioni. Posso testimoniare che si è davvero battuto. A volte si è ingiusti nel valutare i leader».
Dietro alla sconfitta di Matteo Renzi c’è anche un dato personale?
«Spesso quel che si ama in un leader diventa poi il suo punto debole. Che cosa piaceva di Renzi? Che fosse giovane, intrepido, audace. Qualche tempo dopo, le stesse qualità sono state interpretate come segno di arroganza».
È preoccupato per la situazione politica in Italia?
«Sì, perché è un nuovo sintomo della crisi democratica che tocca i partiti di governo ovunque in Europa. Su 28 governi europei solo quattro, cinque con la Grecia, sono di matrice socialdemocratica».
La sinistra paga un prezzo più alto quando va al governo?
«Siamo schiacciati tra l’incudine e il martello. Da una parte la destra ci attacca su sicurezza e immigrazione. Dall’altra una parte della sinistra ci considera traditori. E alla fine dei conti chi vince? I populisti o i conservatori».
En Marche è un movimento conservatore?
«Se mi fossi presentato, Emmanuel Macron non sarebbe presidente oggi. Avrebbero vinto François Fillon o Marine Le Pen. Il mio senso di responsabilità ha impedito che succedesse».
Come ha fatto a non accorgersi della scalata verso il potere del suo ex consigliere e ministro. Ha peccato di ingenuità?
«Quando lavoro con dei ministri, mi fido di loro. Non sospetto ad ogni momento che vogliano prendere il mio posto».
Macron ha raccontato di essere partito dal governo in disaccordo con le scelte economiche, come l’aliquota al 75% sui patrimoni più alti.
«Non rimpiango nulla di quella misura. E dare oggi vantaggi fiscali agli stessi contribuenti più ricchi, scegliendo di tassare pensionati e redditi più modesti mi pare fonte di una forte incomprensione».
Quando ha parlato con Macron l’ultima volta?
«Al momento del passaggio di consegne all’Eliseo, quasi un anno fa».