La buona notizia è che chiunque sarà il prossimo governatore della Lombardia, porterà avanti la battaglia per l’autonomia della Regione. La cattiva notizia è che secondo Giorgio Gori, sindaco Pd di Bergamo e quasi certamente sfidante, a primavera, di Roberto Maroni per l’ufficio più alto del nuovo Pirellone, le parole dell’attuale presidente leghista in merito al referendum di domenica prossima sono solo propaganda. «Quel che mi stupisce è come la stampa le accetti senza eccepire», attacca. «Non crederete mica che se i122 ottobre vince il Sì, lo Stato lasci alla Lombardia 27 miliardi di residuo fiscale da gestirsi? Ha ragione Formigoni: questa consultazione non porterà più soldi alla Regione».
E allora perché la sostiene?
«Perché per le materie su cui otterremo maggiore autonomia quando riusciremo a ottenere il sì del Parlamento e non il giorno dopo il referendum avremo più libertà e potremo risparmiare soldi da reinvestire. Il trasferimento di competenze dal centro alle Regioni è un pezzo di cultura del centrosinistra. Nel 2015 raccolsi le firme di tutti i sindaci dei capoluoghi lombardi per chiedere a Maroni di darsi una mossa e aprire con il governo il negoziato per l’autonomia. Lui ha aspettato e ora gioca il referendum in chiave elettorale».
Quel che conta è che ora si vota…
«Sperando che la gente ci vada, a votare. Perché se il referendum va male, di federalismo in Lombardia non se ne parla più per altri vent’anni».
Cosa intende per andare male?
«Qui si rischia di fermarsi al 40%».
Considerando che quello che ha mandato a casa Renzi ha avuto il 65% di affluenza, il 40 per una consultazione non è male. Anche in Catalogna ha votato il 40%…
«Che c’entra? In Catalogna avevano l’esercito schierato contro. Non vorrei che questo referendum finisse per frenare il processo: sarebbe stato meglio consultare le parti sociali, votare l’autonomia in Consiglio regionale e presentarsi direttamente a Roma, come avevo suggerito nel 2015».
Una strada già tentata dalla Lombardia. E lo Stato le disse di no…
«Più che lo Stato, la Lega, che nel 2008 andò al governo con Berlusconi c’erano sia Maroni che Zaia e bloccò la trattativa avviata tra la Lombardia e il precedente governo Prodi. Oggi l’Emilia ci sta provando e in Consiglio Regionale hanno già votato un documento che incarica il presidente Bonaccini di trattare l’autonomia con Gentiloni. Pensi che beffa se Bologna ce la fa prima prima di Milano».
Calderoli, allora ministro, ha rivelato che si oppose la parte meridionale di Forza Italia. Il tentativo emiliano oggi è preso sul serio perché ci sono i referendum lombardo e veneto, lo sanno tutti…
«Tutti chi? Mi pare difficilmente dimostrabile».
Sì che lo è: oltre alla Lombardia, il Veneto, il Piemonte e perfino la rossa Toscana hanno tentato in passato la via dell’autonomia senza passare dal referendum e sono state tutte respinte con perdite…
«Io conosco la situazione lombarda. E so che se la Lega non si fosse messa di traverso oggi avremmo già una Regione più autonoma. Le prometto comunque, a prescindere da come andrà il referendum, che da presidente della Regione nel 2018 io manderò avanti la richiesta di maggiore autonomia, con la procedura prevista dalla Costituzione».
Mi conforta: per quali materie?
«Quelle che servono: ambiente, salute, autonomie locali, lavoro, istruzione tecnica e universitaria, ricerca scientifica per l’innovazione. E comunque, anche se domenica prossima ci sarà una valanga di sì, spieghiamo bene che il referendum non cambia nulla. È solo il primo passo, poi si apre una trattativa».
Sull’onda del consenso popolare però ha un altro peso…
«Purché il consenso ci sia, perché altrimenti questo referendum rischia di essere uno spreco di denaro».
Anche lei con la retorica dei costi? Ma quelli sono colpa del governo, bastava che il Pd acconsentisse a votare il referendum contestualmente alle Regionali…
«Nessuna retorica. Dico solo che questi 50 milioni si potevano spendere più utilmente. La vittoria del sì è scontata, poi però bisogna fare l’accordo col governo e portare a casa la maggioranza assoluta nei due rami del Parlamento. Bisogna cioè convincere anche i parlamentari delle altre regioni, il che non è banale. Se poi uno le spara grosse come fa Maroni e minaccia di togliere miliardi agli altri territori, ottiene certamente l’effetto opposto».
Pensa che con un Parlamento a maggioranza centrodestra non possa rifiutargli l’autonomia…
«Forse. Occhio ai toni: buttarla sull’ideologico e sul Nord padrone dei suoi soldi è controproducente, dà fiato alle spinte centraliste».
Sindaco, mi sembra in mezzo al guado: cosa si augura?
«Che vinca il Sì e che la gente vada a votare. Faccio campagna elettorale per questo e chiuderò a Milano con tutti. Che devo fare di più?».
Non si sente abbandonato dal suo partito sul tema?
«No, ho con me tutti i principali amministratori locali del Pd, salvo l’amico De Paoli, il sindaco di Pavia».
Il Pd lombardo non sostiene il referendum: traditori della patria?
«Capisco la posizione del Pd. In Regione ha fatto una battaglia contro il referendum legata ai costi e non è stato ascoltato. Ora tiene il punto».
Sulla pelle della Regione però…
«No, perché dà libertà di voto».
Ma sul tema il Pd è in cortocircuito: è per l’autonomia dell’Emilia ma non della Lombardia…
«Il Pd è per l’autonomia delle regioni, come me e come lei. Ciò che contesta è l’inutilità del referendum. Noi amministratori condividiamo le obiezioni ma abbiamo deciso che l’oggetto l’autonomia è più importante delle critiche allo strumento».
Non dovrebbe fare così qualsiasi politico?
«Un politico non dovrebbe parlare di autonomia e poi chiedere 27 miliardi di residuo fiscale, perché questo significa secessione, non autonomia».
Il referendum è un passo concreto verso il federalismo?
«Me lo auguro. Il federalismo è una scelta moderna anche in chiave europea. Il rafforzamento delle Regioni non è in alcun modo in contrasto con l’unità nazionale, almeno per noi. L’Italia è più forte se riconosce le specificità territoriali anziché appiattirle. Ma no alle spinte secessioniste: ci riportano indietro e ci rendono più deboli. Guardiamo a quel che accade in Spagna. I popoli vanno tenuti insieme».
L’Europa ha fallito in questo…
«E cosa poteva fare? Quella catalana è una vicenda nata storta, l’Europa non può intervenire nella sovranità dei singoli Paesi».
Con l’Italia l’ha fatto: estate 2011, lettera di commissariamento al governo Berlusconi, con seguito di sfottò di Merkel e Sarkozy al G8 e caduta dell’esecutivo per aprire la strada a Monti premier. Per non parlare di bail-in, commissariamento della Grecia, sanzioni a qualcuno e ad altri no…
«Non credo a un deficit di democrazia della Ue».
E del Parlamento italiano: stiamo approvando la riforma elettorale a colpi di fiducia…
«L’accordo è molto trasversale, il che giustifica la fiducia».
Mdp si lamenta che non ci sono le preferenze…
«Il Parlamento oggi è composto di gente eletta con le preferenze?».
Lei che è da sempre di sinistra forse può aiutarmi: perché continuate a scindervi?
«Una malattia genetica? I piccoli partiti rischiano di contare poco. I giornali li illudono dando loro una visibilità superiore alla loro effettiva consistenza. Da una parte c’è il Pd, cioè un partito popolare che sta tra il 26 e il 28%, dall’altra rispettabili movimenti che viaggiano tra 1’1 e il 3%. Non è proprio la stessa cosa, ma a volte pare che i media se lo dimentichino».
Perché quelli di Mdp se ne sono andati?
«È evidente che ci sono aspetti personali, prevalgono la vena polemica e l’anti-renzismo. Peccato, forse dovrebbero pensare meno a Renzi e più ai milioni di elettori che ancora si riconoscono nel progetto del Pd».
Per le elezioni in Lombardia lei ha fatto un appello agli ex arancioni: lo estende anche a Mdp?
«Certo. Io punto alla coalizione più ampia possibile. Con il turno unico vince chi prende un voto in più dell’altra parte. E dall’altra parte c’è la destra. Chi sta fuori dall’alleanza finisce per favorire gli avversari».
Il tentativo di Pisapia di unire la sinistra è fallito: ha tentato una missione impossibile?
«Una missione complicata, ma non credo che la partita sia conclusa».
Perché a Renzi è andata male con il referendum?
«Renzi ha pensato che il merito della riforma, ossia la semplificazione della macchina politica, potesse convincere gli italiani superando le appartenenze e gli schieramenti. Col senno di poi, possiamo dire che era un calcolo sbagliato, anche se si trattava di una buona riforma. Il referendum invece ha saldato contro di lui i fronti più diversi, con le più svariate motivazioni. Ha caricato il voto di eccessivo significato, per questo una volta sconfitto non ha potuto che dimettersi».
Ha pagato l’arroganza e la narrazione troppo ottimista del Paese?
«Renzi ha il suo carattere, ma ce l’aveva anche quando ha preso il 41% dei voti. Quanto allo storytelling, credo che la costruzione di un clima di fiducia sia indispensabile per sostenere l’economia».
Quando però Berlusconi diceva che i ristoranti erano pieni la sinistra lo prendeva in giro… «E infatti alla fine hanno preso in giro pure Renzi.» Qual è il punto dolente del Pd?
«Ha i suoi difetti, chi non ne ha? Ma si guardi intorno, il Pd è la più importante forza del centrosinistra europeo. E in questi anni al governo ha fatto ripartire il Paese».
E allora perché il Pd ha così tanta paura dei fascisti?
«Allude alla legge Fiano?».
Anche alle critiche che lei ha ricevuto da Fiano perché non vuole revocare la cittadinanza onoraria di Bergamo a Mussolini…
«Quella è una montatura. Hanno chiesto a Fiano, a freddo, se avrebbe dato la cittadinanza onoraria a Mussolini e lui, ovviamente, ha risposto di no. La mattina dopo ci siamo sentiti e lui ha chiaramente spiegato su Facebook che non c’era alcuna polemica nei miei confronti. Se avessero rivolto a me la stessa domanda avrei risposto come esattamente come Fiano. Chi darebbe oggi la darebbe oggi la cittadinanza onoraria a Mussolini?».
Però neppure la toglie…
«Gliel’hanno data nel 1924, quando il regime, ahimé, godeva di ampio consenso. Io non sono per cancellare la storia, semmai per utilizzarla come monito per il futuro. Non sono neanche per cancellare la scritta Dux dall’obelisco del Foro Italico…».
Ma quello è un monumento, di Mussolini non più cittadino orobico non si accorgerebbe nessuno…
«Molti la pensano così, ma in me prevale il rispetto per ciò che è stato. Le lavagne non vanno sbianchettate, altrimenti si finisce con l’abbattere l’arco di Tito perché era antisemita».