I camion militari che portano via le bare sono l’immagine del dolore di una città che non riesce nemmeno a seppellire i suoi morti. E non è accaduto solo una volta, perché questi luttuosi convogli avvengono a giorni alterni. Solo la scorsa settimana in provincia di Bergamo il Covid-19 ha ucciso oltre 300 persone. «Bergamo soffre molto, anche se con grande sobrietà. Quella sfilata di mezzi fa capire cosa stia succedendo veramente qui, racconta i drammi personali. Ognuno in città ha una persona cara malata, in ospedale o deceduta». Giorgio Gori sta combattendo la battaglia più dura da quando, a giugno 2014, è diventato sindaco di Bergamo. Ora, dice, «la mia agenda è completamente vuota, eventi e appuntamenti ordinari cancellati, ma lavoriamo dalle otto di mattina finché non crolliamo stremati la sera».
Il lavoro più delicato è il coordinamento tra voi sindaci e la Regione Lombardia.
«Abbiamo cercato di tenere un raccordo stretto, noi sindaci ci sentiamo in continuazione, quasi tutti i giorni abbiamo una videoconferenza con il presidente Fontana e i suoi assessori. Dobbiamo tenere stretti i bulloni, per la sanità lombarda è una prova inimmaginabile, innanzitutto per chi sta negli ospedali. Con estrema fatica i presidi reggono. I limiti maggiori emergono nella sanità di territorio, che in Lombardia – nonostante gli sforzi che tutti stiamo facendo – non è solida come quella di Veneto ed Emilia Romagna. Purtroppo ora ne abbiamo la prova. La rete dei medici di medicina generale, che è il primo baluardo contro il contagio, è falcidiata dalla malattia, qui da noi 140 medici su 800. Troppe persone arrivano in ospedale tardi e in pessime condizioni, devono essere intubate in terapia intensiva. Molte in ospedale non riescono proprio ad arrivare e muoiono a casa: sono quasi tutti anziani con la polmonite, casi di Covid-19 non censiti, che sfuggono ai radar. Si fa fatica a dare assistenza con l’ossigeno, a intercettare per tempo queste persone e in ospedale non c’è posto per tutti. Servirebbe una rete territoriale più forte, adesso c’è una corsa a potenziarla».
Come avete reagito?
«Con l’impiego delle guardie mediche, di giovani neolaureati, dei medici volontari. Ma ancora mancano i dispositivi di protezione, le mascherine, e non possiamo mandare in prima linea dei soldati completamente disarmati. Il fronte delle attrezzature come ventilatori e respiratori resta un problema. La prima necessità, anche per l’ospedale di campo a Bergamo, sono medici e infermieri. È indubbio che la gravità di quello che stava arrivando è stata sottovalutata, a tutti i livelli, ma era anche difficile pensare a una cosa di questa violenza».
Presto arriverà il nuovo ospedale da campo in Fiera.
«Sarà pronto entro venerdì. C’è stata un po’ di esitazione in partenza. È stato dato il via, poi lo stop, poi il via libera definitivo. L’importante è che si faccia. Ora stanno lavorando gli alpini e in raccordo con il Papa Giovanni XXXIII avremo un nuovo punto di screening, con ossigeno e letti per la terapia intensiva. Ci lavoreranno, tra gli altri, i medici di Emergency e forse un gruppo di dottori russi».
Con una zona rossa sarebbe accaduto tutto questo?
«Il punto non è mai stato la città. Il focolaio era ad Alzano Lombardo e a Nembro, più grave ancora che a Codogno. Non era facile decidere, questa è un’area ad altissima densità di popolazione e di imprese. Ma credo che, se fosse stata chiusa la media Valle Seriana, oggi le cose andrebbero un po’ meglio. Io ero tra quelli che la chiedevano. E con forza. Ma alcuni amministratori della zona non erano convinti, temevano per le tante aziende».
È preoccupato per il dopo coronavirus, sindaco?
«Moltissimo. Questa è una provincia molto operosa, il contagio ha spazzato via in poche settimane generazioni di lavoro. Se riuscissimo a ripartire prima di settembre, davvero sarebbe un buon risultato. Ma perché torni tutto come prima ci vorranno forse dieci anni».