David Miliband ha lanciato l’allarme, ripreso ieri sulle colonne dell’Unità: il Regno Unito rischia di diventare il Paese in cui rimane un solo partito di governo, i conservatori. È un problema che si ferma al Canale della Manica? Facciamo un esercizio mentale: immaginiamo un dirigente del Partito Socialista Europeo entrato in letargo a metà 2009, sei anni fa, e ridestatosi oggi. Prima del letargo, la rivista Newsweek aveva proclamato in una copertina “We Are All Socialists Now” , sdoganando l’aggettivo negli Stati Uniti. Il nostro dirigente era convinto che la crisi finanziaria avrebbe generato la bancarotta dei governi di centrodestra in Europa, e la fine della loro credibilità davanti agli elettori.
Costruire una nuova Europa era il compito, quasi per diritto ereditario, delle forze progressiste. Invece, come diceva il secondo presidente degli Stati Uniti, John Adams, “i fatti sono ostinati”. E il nostro socialista immaginario si e’ risvegliato in tutt’altro scenario. In Germania la SPD talvolta fatica a distinguersi dal governo di Angela Merkel. A sentire alcuni suoi esponenti, addirittura non sembra poter competere con la CDU. In Francia, Hollande è alle prese con due destre, entrambe assai competitive. Della Spagna si è parlato soprattutto per Podemos, ma il risultato di dicembre, che chiuderà quest’anno elettorale europeo, è una incognita assoluta. I socialisti, che hanno governato fino al 2011, sembrano invece più competitivi nelle elezioni portoghesi d’autunno. Nel 2009, i socialdemocratici guidavano la Slovenia; nel 2014, sono andati sotto il 6%. Veniamo alla Scandinavia, terra della socialdemocrazia. In Norvegia, Erna Solberg ha chiuso l’era laburista. La sinistra è tornata al potere in Svezia ma fatica, mentre Helle Thorning Schmidt ha perso in Danimarca. Nell’eurozona, i socialisti finlandesi sono il quarto partito della coalizione di governo e nel 2015 hanno ottenuto la peggiore performance della loro storia. Il protagonismo dell’Europa baltica e dell’Europa centro-orientale nella crisi ucraina e nella crisi greca hanno poco o nulla a che fare con l’Europa dei socialisti. La sfida polacca si gioca tra Diritto e Giustizia e Piattaforma Civica, mentre la coalizione socialista nei sondaggi è saldamente sotto il 10%.
In questo panorama politico, il nostro socialista immaginario, reduce da sei anni di letargo, dopo una surreale conversazione con alcuni colleghi convinti che Tsipras sia ormai diventato di destra (un caterpillar diventato farfalla, come lo ha definito un ministro socialista slovacco), potrebbe forse sorprendersi guardando all’Italia e all’eccezione del profilo netto di una sinistra di governo. Intendiamoci, anche nel PD non mancano certo errori e difficoltà. Ma alla nostra vicenda si guarda con grande interesse da parte dei Democratici e dei progressisti europei. Per una ragione semplicissima. Tramontata l’illusione di “ereditare” il potere come conseguenza automatica della crisi della finanza globale, la sfida per la sinistra è dimostrare di poter ancora vincere e governare senza perdere la propria identità. Anzi, aggiornandola. Sull’immigrazione. Sul rilancio di crescita e occupazione. Sulla riduzione delle tasse e della burocrazia. Su uno sviluppo che riduca le disuguaglianze. Per riforme liberali e regole semplici del mercato del lavoro. In una parola, una sinistra non prigioniera di neonazionalismi e di un’attrazione fatale per l’opposizione, per uscire dall’angolo in cui la sinistra è stata costretta dai populisti e dalle loro bacchette magiche immaginarie.