La notte sembrava cominciare bene con la vittoria dei remain. Invece ci siamo svegliati con questa brutta sorpresa. David Cameron ha commesso un errore, proponendo di fare il referendum sull’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Adesso però il voto va rispettato. La Gran Bretagna attivi al più presto le procedure per la separazione come previsto dall’art. 50 del Trattato». Decollato dopo il vertice di ieri mattina a Palazzo Chigi per il Lussemburgo, il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha concluso il pranzo coi suoi (ancora) 27 colleghi. Il ministro britannico Philip Hammond non c’era. «Al suo posto un sottosegretario ha introdotto la discussione in modo accorato e dolente. Era, direi, provato!».
Lei, ministro, si aspettava lo strappo della Gran Bretagna?
«Considerando gli ultimi giorni, in particolare l’andamento delle borse e dei mercati finanziari il giorno prima, e anche tragicamente i possibili effetti dell’omicidio di Jo Cox, si era diffuso un certo maggior ottimismo a favore dei remain. Adesso non resta che prendere con rammarico atto dell’esito. Il problema è come reagire. Non basta difendere l’esistente o dire: se n’è andato il Regno Unito, andiamo avanti a 27. Non possiamo dire, qui: business as usual».
Che cosa bisogna cambiare in Europa?
«L’Unione Europea resta l’Unione Europea anche se a 27. Ha 440 milioni di abitanti, è il grandissimo risultato del lavoro di generazioni. Ma quello che è successo non va minimizzato. Il Regno Unito non era solo uno dei 28, aveva un grande peso. Penso ai mercati finanziari e alla sua proiezione internazionale. Il primo tema è come gestire la separazione, il secondo è il futuro, ossia immaginare una nuova architettura dell’Unione».
Perché la Gran Bretagna dovrebbe sbrigarsi a uscire dalla Ue?
«Questo è il messaggio principale che io e i ministri francese e tedesco abbiamo voluto lanciare ai britannici: c’è una procedura che regola l’uscita dall’Unione e noi ci aspettiamo che Londra la attivi rapidamente».
Ma perché?
«C’è stato un referendum, bisogna rispettare gli elettori e non si può affrontare un lungo cammino su una terra incognita riguardo al se, come e quando separarsi. Questa terra incognita prolungherebbe da un lato una certa instabilità nei mercati, dall’altro renderebbe ancor più debole la Ue in un momento in cui l’Europa ha bisogno invece di forza e chiarezza: in altre parole, non sarebbe un buon affare se discettassimo per mesi su come e quando avviare le pratiche del divorzio. Mi auguro perciò che alcune affermazioni del governo di Londra sui tempi siano frutto della comprensibile incertezza provocata dallo choc della sconfitta».
Quali dovrebbero essere questi tempi?
«Non essendo questo un procedimento di espulsione, tocca a chi ha deciso di uscire notificare a Bruxelles la propria decisione. Questo processo di separazione è regolato dal Trattato e presenta molte poste in gioco, rilevanti dal punto di vista degli scambi commerciali, dei rapporti tra i cittadini e altro. Ma il suo avvio dipende dal governo britannico».
Matteo Salvini vorrebbe fare un referendum per poter cambiare i Trattati e quindi proporre di uscire dall’Europa
«La regola che non consente di esprimersi attraverso un referendum sui Trattati è una regola costituzionale, quindi non si va molto al di là della propaganda con queste affermazioni. Ma al di là delle minacce, spuntate, di usare l’arma referendaria, è ben lungi da me sottovalutare il rischio di contagio del modello britannico in altri paesi e nella stessa Italia. Questo rischio, anzi, è tale per cui dev’essere mandato un messaggio forte e chiaro di rilancio del progetto dell’Unione da parte dei paesi della Ue».
Su diversi dossier europei ultimamente Italia e Gran Bretagna viaggiavano all’unisono. E ora?
«Conserveremo un’ottima collaborazione su tanti dossier internazionali. Siamo paesi amici, alleati nella Nato, questo non cambierà con l’uscita del Regno Unito dalla Ue. Con Hammond in particolare avevo sottoscritto un documento con alcuni possibili punti di convergenza nonostante avessimo posizioni diverse sull’idea strategica di un’Europa più integrata. L’Italia nel dibattito europeo non era dalla stessa parte della barricata, tuttavia avevamo individuato alcuni interessi comuni».
E adesso? Quale sarà il nostro ruolo in Europa?
«Sarà un ruolo destinato a crescere e questo significa che cresceranno le nostre responsabilità . Prima eravamo 4 player principali, ora siamo tre».
Ma lo schiaffo dei cittadini britannici a questa Europa faciliterà adesso le richieste di cambiamento dell’Italia, per esempio rispetto alla flessibilità ?
«Questa è un po’ la sfida dei prossimi mesi. C’è una casa con 28 inquilini, uno se ne va La casa resta in piedi ma va rinnovata, altrimenti sarà sempre meno ospitale. L’Europa soffre in modo evidente il deficit di politiche comuni per la crescita e sull’immigrazione. L’Italia ha fatto proposte concrete in entrambi i campi. Quanto all’architettura istituzionale, ci sono diversi livelli di unità e integrazione: paesi con la moneta unica, paesi Schengen, e altri. Su nostra iniziativa i 6 paesi fondatori hanno avviato incontri, il prossimo a Berlino domani (oggi per chi legge, ndr), non per lanciare grida nel deserto ma per proporre da un lato politiche comuni di crescita economica e migratorie, dall’altro immaginando un’Europa a cerchi concentrici, capace cioè di dare un senso e una legittimità democratica a livelli diversi di integrazione».
Che cosa vi siete detti con Hammond?
«Philip Hammond si è battuto per il remain e gli ho dato atto di questo sforzo, purtroppo però il risultato è quello che è. Ed è amaro constatare che il referendum sia stato una iniziativa assunta dal primo ministro che poi lo ha perso. Abbiamo parlato dei tempi di attivazione della procedura del loro distacco».
Che cosa cambia per gli italiani che studiano e lavorano in Gran Bretagna?
«Nell’immediato, nulla. Nei prossimi due anni, che sono i tempi ragionevoli per definire i nuovi rapporti tra Unione Europea e questo particolare paese terzo che è il Regno Unito, se ne discuterà . La regolazione della circolazione delle persone sarà uno dei nodi della trattativa, assieme alle regole per il commercio. Noi difenderemo chi fa impresa e lavora in Gran Bretagna e troveremo soluzioni vantaggiose per entrambe le parti. I diritti acquisiti dei nostri concittadini comunque saranno preservati».
Molti ora dicono che l’effetto domino non si eserciterà solo nella disgregazione europea, ma concretamente in Italia sul referendum di ottobre, cioè la Brexit favorirà il no al referendum costituzionale…
«Non vedo il nesso. Semmai in certi aspetti della spinta contro l’Ue c’è un’insofferenza verso gli appesantimenti burocratici e la scarsa capacità decisionale. Il referendum va nella direzione di una semplificazione della burocrazia, una riduzione del numero dei parlamentari, un chiarimento dei rapporti tra Stato e regioni».