«La telenovela continua». È divertito signor ministro?
«Macché, non scherziamo. Come avvocato e come politico sono rispettoso delle sentenze. Ma a oltre tre anni dalla pubblicazione del bando per selezionare i direttori dei musei, dopo sedici pronunciamenti del Tar e sei del Consiglio di Stato, non è possibile che si debba cominciare daccapo».
Dario Franceschini è in macchina, la campagna elettorale incalza, ma la riforma da lui promossa, e che vorrebbe gli tornasse utile per il 4 marzo, inciampa nella decisione del Consiglio di Stato.
La sentenza mina un aspetto decisivo della riforma. O no?
«Da un lato conferma che i concorsi erano regolari. Dall’altro ci fa ripiombare nell’incertezza su una questione cruciale. E attenzione: non chiamiamo stranieri quei direttori, perché oltre che culturalmente è giuridicamente infondato».
I giudici notano contraddizioni fra le norme. Non si poteva risolverle in anticipo?
«Sono convinto che le nostre ragioni siano fondate e verranno riconosciute. Ma insieme alle questioni di forma, c’è la sostanza: in tutto il mondo ci sono musei diretti da cittadini provenienti da paesi diversi, compresi gli italiani. È possibile che l’Italia debba fare eccezione?».
La sentenza rimette in discussione tutto. Non teme che sia un altro scossone per una struttura già tanto debilitata?
«Mi domando come ci giudicano all’estero, dopo aver salutato con molto favore la riforma. Ho il timore che, dovesse giungere una decisione negativa su Peter Assmann, questa avrà ripercussioni gravissime in generale».
Quali conseguenze?
«Come si può pensare che, quando scadranno i contratti, chi ha diretto così bene i nostri musei chiederà di essere riconfermato? Che lo faccia essendo probabile che qualcuno presenti ricorso invocando il fatto che non è italiano? E lo stesso vale per storici dell’arte e archeologi non italiani, ma con fior di curriculum, che volessero lasciare i loro incarichi per venire a dirigere qui».
La sua riforma è stata, ed è, contestata. Questa sentenza non rinfocolerà i dissensi?
«Se le riforme sono vere suscitano sempre dissensi. Solo quelle finte vedono tutti d’accordo. Io sono contento che si sia discusso».
Ma lei è soddisfatto della riforma? Ci sono successi, ma anche carenze che si trascinano da anni, per esempio sul personale. O iniziative controverse.
«Basta andare in uno qualunque dei trenta musei e siti archeologici per apprezzare le differenze rispetto a prima. I servizi, le attività scientifiche e di ricerca. Le mostre ora sono decise dalle strutture interne dei Musei e non più appaltate in esterno. E tutto questo senza considerare l’aumento dei visitatori».
Ma la riforma andrà avanti nella prossima legislatura o è possibile che venga ribaltata?
«lo la difenderò qualsiasi incarico assuma. Ma devo rivendicare il fatto che su poche cose, in questi cinque armi, si è raggiunta una convergenza oltre la maggioranza e fra queste poche cose ci sono i beni culturali e lo spettacolo. L’Art bonus e la legge sul cinema sono stati approvati con un consenso ampio».
La sentenza del Consiglio di Stato arriva alla fine del suo mandato. Quanto influisce sul bilancio di questi anni?
«Vediamo come andrà a finire al Consiglio di Stato. Ma intanto vado orgoglioso che i beni culturali e la cultura non siano più un oggetto marginale. Erano centrali nel dibattito scientifico, ma non in quello politico. Ora si litiga sulla riforma o sull’arena al Colosseo. È un buon segno».
Le basta questo per dirsi soddisfatto?
«No. Dopo anni di tagli, il bilancio del ministero è cresciuto del 58 per cento. Quando sono arrivato c’erano disponibili per restauri e tutela 37 milioni. Ora sono 3 miliardi. E con l’Art bonus sono arrivati 230 milioni di soldi privati».
Insisto: in molte soprintendenze ingolfate di lavoro vanno via in tanti e arrivano in pochi.
«Abbiamo fatto tanto, i concorsi per mille assunzioni, per esempio, ma molto bisogna ancora fare. Vorrei fare di più per immettere giovani preparati, che hanno studiato, hanno conseguito dottorati e master. E poi vorrei più investimenti su arte e architettura contemporanee».