«Se ci capiterà questa disgrazia della scissione cosa scriveranno tra 10 anni gli storici? E’ successo perché alcuni volevano fare il congresso a settembre e altri ad aprile? Sarebbe incomprensibile. Ma per il nostro popolo lo è anche ora». Dario Franceschini s’incarica dell’ultima chiamata per il Pd. Ci prova. Il telefono squilla in continuazione, le mail di elettori e militanti che non capiscono la spaccatura si moltiplicano nella casella personale, «anche per strada mi fermano per dirmi “ma che fate” e non so se stiano con Renzi o con Bersani». Sperduto in un angolo del gigantesco studio del ministero della Cultura, legge al computer la lettera aperta dell’ex segretario pubblicata da Huffington. Scuote la testa. «Non sono equidistante», dice. Nel senso che rimarrà nella maggioranza renziana. Ma chiede lo sforzo di tutti per evitare il peggio e «chi ha più responsabilità, ovvero Renzi, dev’essere anche il più generoso. Deve mettere in campo l’impegno maggiore». La sua proposta di mediazione è chiara: allungare i tempi del congresso fino a maggio ( primarie il 7) per poi avviare la campagna elettorale per le amministrative (probabilmente si voterà I’ll giugno). A metà percorso, trasformare la convenzione, cioè la presentazione dei candidati, in un appuntamento di tre giorni per discutere anche linea del partito e suo programma.
Le è chiaro che il problema non sono più le date, ma Renzi?
«Mi è chiarissimo. Ma si esce da un partito se non se ne condividono più le idee. Se invece non ci si riconosce nel segretario, lo si sfida al congresso. Le scissioni che ho conosciuto io hanno sempre seguito queste regole». Si riferisce alla Dc? «La Dc, o meglio il Ppi, si divise per una scelta di campo strategica, culturale e politica. Alcuni andarono con Berlusconi. Altri costruirono il centrosinistra. E anche la scissione del Pci fu tra chi voleva creare una sinistra di governo, il Pds, e chi puntava a rimanere una sinistra alternativa».
La scissione del Pd sarebbe dunque incomprensibile?
«Sarebbe soprattutto un dolore enorme. Il partito non è proprietà di alcuni capi che litigano. Stiamo discutendo di una forza politica che appartiene a milioni di persone, non ai leader. Persone che hanno faticato a sciogliersi in un soggetto unico, mettendo da parte storie gloriose e centenarie. E che oggi dicono: se è la casa di tutti, litighiamo, scontriamoci, ma senza abbandonarla o distruggerla. Martin Schulz quando si è candidato a Cancelliere ha detto: non devo inventarmi nulla, c’è la storia di 150 anni di socialdemocrazia. Il Pd ha una piccola storia di appena dieci anni e dobbiamo consolidarla. E’ il nostro popolo che non vuole vederla finire».
Il punto, dice la minoranza, è l’interpretazione del ruolo da parte di Renzi. L’uomo solo al comando.
«Il congresso serve a questo. Chi vince non deve prendere tutto, non occupa tutto lo spazio. Ascolta le ragioni di chi ha perso e si fa carico della sintesi condivisa».
E candidati alle elezioni.
«Quando c’è lo spazio ci sono anche i candidati, non è questo il punto. Capisco anche il timore di chi dice che il congresso non deve diventare una conta affrettata. Allora si lavori sul calendario, su un confronto di idee e di programma in cui ridefiniscí i tuoi confini e i tuoi contenuti. Ma il chiarimento su cosa è il Pd e su chi lo guida deve avvenire prima delle amministrative».
Non è il percorso indicato da Bersani.
«Lo vedo, ma forse c’è ancora uno spiraglio. Guardi, io non sono equidistante. C’è sempre stato l’atteggiamento, da parte di quelli che hanno perso nel 2013, di considerare Renzi un usurpatore. Ho visto, e non lo dimentico, un pezzo del Pd votare no alla fiducia posta dal governo guidato dal segretario del partito. Ho visto pochissima voglia di riconoscere i risultati dell’esecutivo. Ho visto infine alcuni del Pd votare No al referendum».
Ha visto cose che voi umani, come nel film Biade Runner…
«Poi bisognerebbe ragionare anche su un semplice calcolo algebrico. Visto che ci sono tre poli equivalenti, noi, Grillo e la destra, se il Pd si divide è più facile che le elezioni le vincano o i 5stelle o Berlusconi e Salvini. L’onda populista non è solo Trump o la Le Pen. Esiste anche in Italia e non è di destra, è trasversale. Di fronte a questo pericolo occorre stare insieme. Invece il morbo della divisione si riaffaccia. Ha già fatto male all’Ulivo, all’Unone e in certi passaggi anche al Pd».
D’Alema dice che senza la sinistra, il Pd assomiglierà alla Dc.
«La Dc era quella cosa che teneva dentro da Leoluca Orlando a Gustavo Selva. Si cambiavano i segretari, le linee politiche e poi si conviveva fino al cambio successivo. Era un bell’esempio di democrazia, altro che. Ed era un partito grande, come il Pd, che proprio per questo non poteva essere un partito identitario».
Senza Bersani cosa sarebbe il Pd?
«Una forza politica che perde un pezzo di storia della sinistra italiana. E idee, energie, valori».
Senza la leadership di Renzi, che Pd sarebbe?
«Un partito che rinuncia ad allargare il suo orizzonte ad aree, ceti sociali e persone lontane dalla sinistra».
Cosa dice a Renzi e Bersani nelle telefonate da mediatore?
«Quello che dico pubblicamente. Capisco il disagio della minoranza. Decidiamo insieme come si riesce a far sentire tutti a casa propria. Ci siamo già riusciti nel breve viaggio del Pd. Io divento segretario in un momento difficilissimo. Affrontiamo le Europee e otteniamo il miglior risultato della nostra storia, se si escludono il 34 per cento di Veltroni e il 40,8 di Renzi. Il giorno dopo quel risultato, Bersani si candida alla segreteria. Facciamo le primarie, una battaglia vera. Perdo. Dopo, lui mi chiede di fare il capogruppo alla Camera e io lo sostengo, lealmente, fino alla sera in cui si è dimesso. Non ho fatto nulla di straordinario, ho fatto ciò che era dovuto».
Oggi cosa si deve fare?
«Sostenere il governo Gentiloni sia per le sfide che deve affrontare sia per completare le tantissime riforme del governo Renzi. Nel Pd ricucire il rapporto con il Paese. Celebrare il congresso con tempi meno affrettati possibile. Fare una legge elettorale come il presidente della Repubblica ha detto in modo molto chiaroAltempo c’è, dato che l’ipotesi di votare a giugno non esiste più».