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#ForumPD – Nannicini: “Le parole che abbiamo perso”

Scarica la relazione di Tommaso Nannicini al Forum PD.
 

  1. 1. LE PAROLE CHE ABBIAMO PERSO

    Per usare al meglio questi due giorni di discussione, per continuare tutti insieme il lavoro di rilancio del Partito democratico, per parlare dei problemi che parlano alla vita delle persone, forse dobbiamo iniziare dando risposta a due domande preliminari. Che ci facciamo qui? E come ci siamo arrivati?
     
    Che ci facciamo qui? Perché ognuno di noi continua a credere nella politica? In una politica fatta di legami e di idee, non di urla, non di fango, non di divisioni? (Come quella politica che ci avete detto che non vi piace nella nostra campagna di ascolto.) E perché spera ancora di costruirla qui, nel Partito democratico e non altrove, questa politica?
     
    Non so quando in ciascuno di voi sia nata la voglia di fare politica.
     
    Quell’idea, oggi così eretica, che impegnandoci insieme ad altri in un progetto comune possiamo cambiare in meglio le cose.
     
    Se penso al mio primo incontro con la politica, mi ricordo che facevo le elementari, ero al mare con i miei genitori. Siamo andati alla Festa dell’Unità di Rosignano insieme ad altri bambini e i loro genitori. Appena siamo arrivati, mio padre ha detto: “ciao compagno”. La risposta è stata: “ciao compagno, vieni che ti trovo un tavolo”. E io mi sono sentito orgoglioso perché mio padre era parte di una comunità, il mio non altri. Ho pensato: ah figo, se questa è la politica, voglio farne parte anch’io.
     
    Poi, strada facendo, ho capito che non c’era solo la pizza. C’era anche il tempo sottratto alla famiglia, ma sempre con la voglia di costruire qualcosa di più grande di quello che si può raggiungere da soli. Ho capito che la politica era passione, studio, farsi carico dei problemi degli altri. Ma sempre insieme ad altri.
     
    Non dico che quella fosse l’unica comunità dove si respirava la bella politica. Ce n’erano altre, che magari hanno fatto anche meno errori. C’è chi si chiamava compagno e chi si chiamava amico. Ma la politica significava quella roba lì per milioni di persone.
     
    Cos’è andato storto? Quand’è che la politica da motivo di orgoglio è diventata motivo di vergogna? Nella manifestazione di Piazza del Popolo e poi nella campagna di ascolto, iscritti e semplici elettori del Pd hanno chiesto una cosa sola in maniera ossessiva: unità. Smettiamola di litigare. La gente non capisce chi siamo e perché stiamo insieme. Questa richiesta è fondamentale. È il cuore dei nostri problemi. Ma dobbiamo farcela tutti, non solo rivolgerla ai dirigenti. Anche qui, ognuno di noi a chi ci siede accanto. Cos’è che ci tiene insieme? Perché l’unità non può essere solo unanimismo di facciata o tregua armata tra correnti. Non funziona. Partiamo dalle domande giuste. Noi, ogni tanto, predichiamo bene ma razzoliamo male. Diciamo che i populisti fanno danni perché di fronte a un problema cercano sempre un colpevole, mai una soluzione. È vero. Ma smettiamola anche noi di chiederci di chi è la colpa al nostro interno. Chi se ne frega. Non perché chi ha responsabilità politiche non debba assumersene la responsabilità. Deve farlo. Ma perché dobbiamo trovare una soluzione, tutti insieme.
     
    Poniamoci allora la seconda domanda. Come siamo arrivati qui? Come siamo arrivati al 4 marzo? Come siamo arrivati a fare un congresso solo 2 anni dopo l’ultimo? A veder governare questi ladri di futuro che rischiano di vanificare le fatiche che gli italiani hanno fatto per uscire dalla crisi? Poniamocela questa seconda domanda per cercare soluzioni, non colpevoli.
     
    Negli anni di governo, abbiamo fatto scelte importanti per il bene del Paese.
     
    Scelte che ci hanno accompagnato fuori da una delle crisi più dure che abbia mai colpito l’economia italiana. Scelte di cui dovremmo andare orgogliosi.
     
    Ma sia chiaro: perdere le elezioni quando hai fatto cose buone per il tuo Paese non è un’attenuante. È un’aggravante. Vuol dire aver fallito sul terreno della politica.
     
    Abbiamo fatto troppe riforme per gli italiani, poche con gli italiani.
     
    Abbiamo smarrito le nostre parole: non quelle del chiacchiericcio mediatico, ma quelle che danno identità, illuminano le politiche che fai quando governi e fanno capire per cosa ti batti.
     
    Sia chiaro: quelle parole non le abbiamo perse solo noi. Il partito socialista greco è passato dal 44% del 2009 al 6% del 2015. Il partito socialista olandese dal 27% del 2003 al 6% del 2017. Il partito socialista francese, il partito di Mitterrand, Delors e Hollande, ha preso il 6% al primo turno delle ultime presidenziali. Non lo dico per autoassolverci, ma, di nuovo, per capire dove cercare una soluzione. C’è stato un momento in cui gli eredi dei grandi riformatori del Novecento sono diventati i tecnocrati del secolo successivo. È successo quando il realismo, che è il giusto antidoto contro la demagogia, si è fatto ideologia. Quando i vincoli di bilancio, piuttosto che un dato di fatto, sono diventati l’unico orizzonte ideale. Quando di fronte a una scelta non si è saputo dir altro che “ce lo chiede l’Europa”.
     
    Le parole non le abbiamo perse per caso, ma perché non ci siamo posti per tempo il problema di aggiornarle in un mondo che cambiava alla velocità della luce. Restando fedeli ai nostri valori.
     
    Ci sono due tendenze che voglio richiamare. E che discuteremo in varie sfaccettature nelle nostre piazze tematiche.
     
    La tecnologia sta cambiando il rapporto tra cittadini e politica, tra cittadini e democrazia. E anche il modo in cui si fa politica. I corpi intermedi – partiti, sindacati, associazioni – sono in crisi ovunque. Nell’età dei social media, il rapporto tra cittadini e politica rischia un cortocircuito in cui è massima la partecipazione momentanea e incendiaria, ma minima la capacità di incidere sulle scelte di chi governa. Le “masse” della politica del Novecento, per dirla con il filosofo Byung-Chul Han, sono state rimpiazzate da uno “sciame” digitale senza gravitazione. Proteggere la democrazia vuol dire anche rinnovare i corpi intermedi perché aiutino questo sciame digitale a farsi massa, a farsi azione collettiva per costruire futuro.
     
    Noi abbiamo fatto bene a superare alcune vuote liturgie della concertazione, ma avremmo dovuto essere più attenti a riannodare i fili del dialogo sociale.
     
    A porci la sfida del cambiamento insieme e non contro il sindacato, le categorie e gli altri corpi intermedi.
     
    E poi questo cambiamento non abbiamo saputo perseguirlo per primi noi.
     
    Abbiamo perso il treno di come si fa organizzazione politica nel XXI secolo.
     
    Non abbiamo saputo ridare una missione ai nostri circoli, mettendoli a rete, investendo sulla loro leadership diffusa, incubando altre forme di impegno civico. Non abbiamo creato un’infrastruttura telematica per mettere insieme sociale e virtuale, relazioni umane e tecnologia. Stiamo finalmente ponendoci il problema e avviando sperimentazioni. Dobbiamo accelerare.
     
    Ma non c’è solo il rapporto tra tecnologia e democrazia dietro a quello che è successo. C’è una grande questione economica e sociale. La crisi del 2008 rappresenta uno spartiacque. Allo stesso mondo in cui la fine degli anni Settanta marcò il passaggio dal grande consenso socialdemocratico, durante il quale anche i governi di centrodestra aumentavano la spesa pubblica e allargavano lo stato sociale, a quello neoliberale, quando anche i governi di centrosinistra privatizzavano e mettevano il welfare in cura dimagrante.
     
    Adesso quale nuovo consenso emergerà non lo sappiamo ancora. Dipenderà anche da noi.
     
    Negli scorsi decenni, le disuguaglianze tra paesi si sono ridotte e milioni di persone sono uscite dalla povertà. Ma i contraccolpi sulle disuguaglianze interne ai paesi sviluppati sono stati palpabili e mal governati. C’è più disuguaglianza nel reddito ma non solo lì: nell’istruzione, nella mobilità sociale, tra territori e generazioni. La classe media si aspetta sempre meno dal futuro. Si è formato un “Quinto Stato” di persone esposte alla precarietà, privo di tutele pubbliche e sindacali, “straniero a casa sua” per mancanza di riconoscimento sociale. Non è un caso che queste tendenze siano andate a braccetto con l’aumento di profitti e monopoli. E quando i muri invisibili delle disuguaglianze dividono persone e territori, prima o poi ha la meglio chi i muri vuole costruirli davvero, fermando il cambiamento e dando un effimero senso di protezione.

  2.  

  3. 2. LE PAROLE CHE CI STANNO RUBANDO

    Da dove ripartire allora? Intanto, dobbiamo opporre resistenza alle parole che ci stanno rubando. 5 Stelle e Lega non sono solo ladri di futuro, sono ladri di parole. Ladri di verità. Perché ricercano il consenso e l’egemonia con un uso distorto e spregiudicato delle parole. Non pieghiamoci a questo furto.
     
    Opponiamoci. Sempre. Ovunque. Al bar. Su Facebook. Scacciamo le loro parole dalla nostra testa. È questa la prima resistenza civile che ci aspetta.
     
    Prendiamo le loro parole. Guardiamo cosa ci sta davvero dietro.
     
    Togliamocele dalla testa.
     
    Decreto dignità, dicono. Decreto dignità? No, sono interventi sul lavoro! E non c’è nessuna dignità. Non ci sono la qualità del lavoro e incentivi al lavoro stabile. Non ci sono l’apprendimento e la formazione. Non c’è il tema salariale, dei bassi salari e dell’equità nei trattamenti retributivi; non ci sono quei milioni di lavoratori a basso reddito che aspettano una paga onesta per un lavoro onesto, non un reddito per smettere di lavorare. C’è invece una norma transitoria pasticciata che purtroppo riduce i posti di lavoro.
     
    Parliamo di dignità, allora. La dignità è un’altra cosa.
     
    Parliamo del loro reddito di cittadinanza: una card, dice Di Maio, che si potrà usare solo per spese “morali” decise dallo Stato paternalista, facendo in cambio 8 ore di lavoro senza formazione e non sapendo bene dove all’interno della pubblica amministrazione.
     
    È l’errore paternalista di chi pensa che c’è una gerarchia dei bisogni. Prima i bisogni primari (stare al caldo, avere da mangiare) poi tutti gli altri (incluse le relazioni sociali). Come se la visita di un amico non nutra quanto un piatto di pastasciutta. Questo loro errore mi fa pensare a un detto che mi raccontava sempre mia madre, che è cresciuta con i nonni perché ha perso i genitori da piccola. Una famiglia povera, un nonno minatore. Ovviamente non ho conosciuto la mia bisnonna ma è sempre stata parte della mia famiglia grazie ai racconti di mia madre, alle pillole di saggezza popolare che iniziavano sempre con la frase: “come diceva mia nonna”. Una di queste pillole recitava: “il povero lo fo a casa mia”. Il povero lo fo a casa mia. Perché posso anche saltare una cena, ma se mia nipote ha bisogno di un vestitino per non sentirsi diversa dalle compagne di classe, quel vestitino va comprato. È questa la dignità che non sparisce con la povertà. Una dignità di cui non ci si prende cura con il paternalismo.
     
    Prendiamo un’altra parola rubata.
     
    Manovra del popolo, dicono. Manovra del popolo? No, è una legge di bilancio! O meglio: è spesa corrente in disavanzo. Spesa che per la sua composizione non crea futuro ma lo ruba. La conosciamo bene noi italiani. Ci abbiamo ipotecato il nostro futuro già una volta, creando il debito pubblico che abbiamo.
     
    Noi non tifiamo per lo spread, tifiamo per l’Italia. Ma sappiamo anche che un Paese col nostro debito non regge a lungo se chi ci presta i soldi perde fiducia in noi. Sui mercati ci sono gli speculatori, dicono 5 Stelle e Lega.
     
    Certo, ci sono anche loro, ma il modo migliore per sconfiggerli non è attaccarli su Facebook, è governare con senso di responsabilità.
     
    L’altra sera in televisione un membro del governo, parlando di pensioni, ha ammesso candidamente che per loro le coperture sono un problema solo per il primo anno, perché tanto dopo si vedrà. Sono soldi del Monopoli per loro.
     
    Il primo anno per le loro misure bastano 7 miliardi, perché mettono finestre all’accesso che ritardano la nuova opzione per andare in pensione anticipata.
     
    Il bello è che i costi salgono a 140 miliardi in 10 anni.
     
    Non sono soldi del Monopoli, sono soldi di noi italiani! Sono tasse che dovremo pagare tra qualche anno. Pensioni dei giovani da tagliare perché non ci saranno le coperture. Smettete di giocare con i nostri soldi per i vostri tornaconti elettorali di breve periodo.
     
    Prendiamo un’altra parola rubata.
     
    Pace fiscale, dicono. Pace fiscale? No, è un condono! È il maggior condono fiscale dai tempi di quello tombale di Tremonti nel 2003. Non si aiuta chi ha difficoltà abbonandogli gli interessi e parte delle sanzioni. Si dice a chi non ha dichiarato somme fino a 100 mila euro all’anno per cinque anni che pagherà un’imposta più bassa di chi quelle somme le ha dichiarate. La vera flat tax l’hanno fatta per gli evasori, l’hanno messa al 20%, mentre tutti gli altri contribuenti onesti pagano dal 23% al 43%.
     
    Questa roba si chiama condono, ed è l’opposto di quello che abbiamo fatto noi in questi anni e di quello che mettete al centro delle priorità nella campagna d’ascolto: lotta all’evasione, rispetto della legge.
     
    Prendiamo un’altra parola rubata.
     
    Air Force Renzi, dicono. Air Force Renzi? No, è un aereo di Stato! Quello non è l’aereo di un singolo. È l’aereo dello Stato italiano. L’unico spreco legato a quell’aereo sono due ministri della Repubblica, pagati da noi, che invece di governare spendono ore a farsi selfie su quell’aereo. Non è una sottigliezza. Quando non si ha senso dello Stato, si comincia così e poi si finisce a chiedere al governatore della Banca d’Italia di candidarsi alle elezioni se vuole aprire bocca. Si finisce col negare il ruolo di garanzia del Presidente della Repubblica e delle autorità indipendenti. Intendiamoci, le istituzioni sono rette da uomini, fallibili e criticabili. Ma negare alla radice la legittimità e l’indipendenza di queste istituzioni, ci piaccia o no, ce ne accorgiamo o no, ci rende tutti un po’ meno liberi. Dai selfie irridenti sull’aereo di Stato a legarsi mani e piedi con Putin e Orban il passo è purtroppo breve. Ed è già stato compiuto.

  4.  

  5. 3. LE PAROLE CHE RITROVEREMO

    Ma veniamo alle nostre parole, alle parole che ritroveremo. Questo era il compito della campagna di ascolto. Questo è il compito della discussione di questi due giorni. Lasciamo che sia questo il compito principale del congresso che faremo. Non sulle liti, ma sulle parole.
     
    Con il segretario, Maurizio Martina, ieri abbiamo lanciato nella discussione alcune linee di riflessione. Quattro parole.
     
    Emancipazione. Cittadinanza. Ecologia. Europa.
     
    Sono solo alcune delle possibili linee di caduta. Ma sono parole che per me uniscono come un filo rosso le priorità che ci avete indicato nella campagna di ascolto: lavoro, lavoro, lavoro, soprattutto dei giovani, giustizia sociale e uguaglianza, senso civico.
     
    Quale che sia il punto di caduta, sarà importante ritrovare anche una radicalità nelle nostre parole, una radicalità nella stretta coerenza tra quello che dici e quello che fai. Serve un riformismo radicale. Perché solo un riformismo radicale può interpretare l’urgenza del cambiamento.
     
    Ma vediamole rapidamente queste quattro parole.

    • Prima parola. Emancipazione.

      Tranquilli, non si tratta di fare volantini con scritto “emancipazione” sperando di prendere voti. Si tratta casomai di avere un faro in testa per le proposte che faremo. Un’ossessione. L’aspirazione delle persone a emanciparsi da ogni costrizione economica o sociale è da sempre il faro della sinistra. Oggi questo vuol dire ripartire dal diritto universale all’istruzione di qualità con un’offerta pari in ogni territorio, dalla dignità del lavoro, dalle opportunità delle donne e dei giovani. Non c’è futuro per un Paese che spende più per interessi sul debito che in istruzione. Che manda tutti in pensione anticipata ma non investe in asili, ricerca, diritto soggettivo alla formazione dalla culla alla tomba. Serve rendere meno costoso il lavoro di qualità, gestire le transizioni da un’occupazione all’altra, creare una rete di welfare in cui far confluire in maniera integrata e personalizzata tutte le politiche del lavoro, quelle che ti aiutano a trovarlo e quelle che ti garantiscono un reddito nel frattempo. Per tutti, scrivevamo nel nostro programma: il cuore del nostro impegno deve ripartire dal rendere universale ciò che è solo per qualcuno. Dall’affermare che i diritti, le tutele, le opportunità o sono anche per l’ultimo della fila o, semplicemente, non sono. Amartya Sen parla di “capacità”: quella di perseguire il proprio progetto di vita, di sottrarsi a malattie evitabili, di trovare un impiego decente, di accedere a un’istruzione di qualità, o di vivere in una comunità libera dal crimine. La lotta alle disuguaglianze deve abbracciare tutte queste dimensioni, nessuna esclusa. Sì, anche la sicurezza da ogni forma di crimine e degrado, perché la sicurezza è un diritto fondamentale di tutti i cittadini.
       
      Ma non si garantisce con gli sceriffi, con il far west. Si garantisce con più Stato, più senso civico, più legami sociali.
       
      Togliamoci dalla testa che un modello sociale di questo tipo si realizzi senza risorse pubbliche. Quando cambia radicalmente il mondo del lavoro e della tecnologia, dobbiamo cambiare anche come si tassa. Oggi, in proporzione, paga meno tasse Bill Gates di chi assembla i computer per lui. In un’economia sempre più immateriale non è accettabile che anche la base imponibile sia immateriale, perché chi ha potere economico la sposta da qualche altra parte. Serve radicalità. Puoi essere la multinazionale più in voga del momento, ma se trasferisci i profitti in un paradiso fiscale, pensando di tenermi buono con qualche investimento in aree dismesse o qualche mancia all’Agenzia delle entrate, hai sbagliato i conti. In attesa di un accordo multilaterale su una base imponibile comune, l’Europa o i paesi europei che non vogliono aspettare devono fare la prima mossa: se vuoi produrre nel nostro paese devi mettere a nudo i tuoi profitti consolidati e il fatturato ovunque operi, dopodiché la tassazione sarà proporzionale al volume che hai prodotto da noi. Ne va della difesa del modello sociale europeo.

    • Seconda parola. Cittadinanza.

      La difesa della democrazia passa anche dal rafforzamento del patto di diritti e doveri che sta alla base del nostro vivere comune. E ancora, serve radicalità. Chi nasce e studia in Italia è italiano. Punto. Diritti e doveri valgono per tutti gli italiani, vecchi e nuovi. Punto. L’immigrazione non è un’invasione da bloccare ma una risorsa da gestire. La rinuncia degli Stati a gestire con intelligenza le migrazioni economiche le ha regalate alla criminalità organizzata. In Italia, per lavorare, si deve poter entrare andando in ambasciata non rischiando la vita in mare. E chi arriva sulla base di flussi regolati deve accettare il patto di cittadinanza e inserirsi nella nostra comunità.

    • Terza parola. Ecologia.

      La transizione ecologica è una delle grandi discriminanti del nostro tempo e un riformismo radicale non può che metterla al centro. Presto 9 miliardi di persone condivideranno il nostro pianeta. Entro il 2050, due terzi della popolazione vivranno in grandi città e quella verso le aree urbane è la più grande migrazione in atto. È possibile crescere economicamente senza far esplodere il pianeta? La risposta è “sì” ma solo se faremo le scelte giuste.
       
      L’Italia e il Mediterraneo sono particolarmente esposti al cambiamento climatico in atto. Serve, di nuovo, radicalità. È cruciale assumere l’obiettivo di zero emissioni di gas serra entro il 2045, lavorando per il taglio delle emissioni del 60% entro il 2030.

    • Quarta parola. Europa.

      Non prendiamoci in giro. Le prossime elezioni saranno una sfida fra tre linee: sfasciare la costruzione europea; conservarla così com’è; oppure – e questo deve essere il nostro orizzonte – costruire un’Europa politica con chi ci sta. Non si tratta di creare un super Stato. E neanche di “cedere sovranità” come troppe volte abbiamo detto nella nostra retorica. Si tratta di costruire una nuova sovranità intorno a temi strategici, che semplicemente non avranno soluzione se non a livello sovranazionale. Con chi ci sta. Lo sappiamo: la storiella della nuova Europa gli elettori l’hanno già sentita. Ci abbiamo fatto tanti convegni. Mai una scelta. Ancora, radicalità.
       
      Serve un Presidente eletto dai cittadini europei, un Parlamento che legifera, strumenti di partecipazione permanenti, un budget a gestione politica che completi l’unione monetaria con un’unione fiscale per gestire la domanda aggregata. E serve un’unione sociale: il radicamento della cittadinanza europea in uno zoccolo duro di diritti sociali. Sì, redistribuendo i rischi tra cittadini europei. Su questo i riformisti radicali non possono essere ambigui. È legittimo che la signora Schulz abbia paura che parte delle sue tasse possano aiutare il signor Rossi quando perde il lavoro, ma senza la condivisione di alcuni rischi l’Europa muore. Anche nella costruzione dello stato sociale nazionale, la redistribuzione non è stata un processo semplice, con linee di frattura che hanno attraversato la sinistra. C’era chi la voleva solo al Nord, chi solo per gli operai. Adesso è il momento di fare la stessa scelta a livello europeo.

 
*****
Grazie a tutti voi per essere qui. Un grazie anche personale per farmi ancora credere che la magia di Rosignano, di quella Festa dell’Unità di tanti anni fa, sia sempre possibile.
 
Grazie ai 70 mila di Piazza del Popolo.
 
Grazie ai 24 mila che ci hanno detto la loro nella campagna di ascolto e che abbiamo il dovere di rendere sempre più protagonisti.
 
Grazie a quei giovani che si stanno allenando per prendere in mano le redini di questa comunità. Come è giusto che sia.
 
Rimbocchiamoci le maniche, tutti insieme. Facciamo politica.
 

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