Dieci armi dopo, il Pd ne ha fatta di strada. Ha perso pezzi lungo il suo viaggio ma, sostiene Giuseppe Fioroni, nato nella Dc, poi nel Ppi e quindi nella Margherita, presidente della commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro, il Partito democratico è oggi un modello in un’Europa in cui la spinta dei populisti si fa sempre più intensa.
A distanza di dieci anni, il Pd è quello che immaginava?
«Fui il primo responsabile Organizzazione e Enti locali del Pd, condivisi con Walter Veltroni e Dario Franceschini la costruzione del partito. Non fu facile. A distanza di dieci sono orgoglioso del lavoro che abbiamo costruito perchè il Partito democratico è oggi l’unico spazio innovativo sul piano del soggetti politici e dei partiti, in Italia ma anche in Europa. Il Pd ha saputo mettere insieme esperienze politiche e culture diverse riuscendo in una sintesi progettuale e programmatica».
Dieci anni fa c’era tutto un altro contesto politico. La spinta populista non era ancora così forte e la stessa Europa era percepita meno lontana. Oggi il riformismo di sinistra è in crisi ovunque. Il Pd in questo scenario europeo come si inserisce?
«Il Partito democratico è l’unico strumento che fa da argine ai populisti in Italia e direi anche in Europa. Le famiglie politiche europee, e mi rivolgo al Ppe ma soprattutto al Pse, hanno la necessità di capire che devono superare un modello e una progettualità che non rispondono più alle esigenze attuali. C’è bisogno di innovare, ammodernare, cambiare, e dopo dieci anni il Pd può sicuramente rappresentare un esempio valido e una traccia significativa quale forza riformista».
Quando nacque, il Pd fu visto come la fusione di ex Pci e ex Dc. Quella visione oggi può dirsi definitivamente archiviata?
«Matteo Renzi recentemente è stato a Orvieto per un convegno organizzato dal centro studi Aldo Moro. Renzi ha fatto una riflessione che mi ha colpito molto. Ha parlato dell’importanza dei valori e delle tradizioni che si portano nei cuori, ma ha poi aggiunto che c’è bisogno di cambiare e riformare. Questa è la sfida che abbiamo davanti. Ho riassunto questa sfida con il refrain di una canzone di un cantautore che non era certamente del Pd, Pierangelo Bertoli, che in “A muso duro” cantava “… con un piede nel passato e lo sguardo dritto e aperto nel futuro…“. Ecco, è la sintesi perfetta a dieci anni dalla fondazione del Pd. Oggi possiamo dire che quella fusione non fu fredda e che anzi nel tempo si è riscaldata».
Però il Pd ha anche preso qualche vizio della vecchia politica e dei vecchi partiti, per esempio un esasperato correntismo interno.
«Nel Pd il confronto è tra più aree. C’è l’area Renzi; l’area Orlando; l’area Emiliano. C’è una presenza culturale plurale e questa pluralità si confronta sul piano progettuale e programmatico».
Pluralismo e non correntismo. Qual è la differenza?
«Quando nacque il Pd, e anche negli armi successivi, di due cose ho sempre avuto paura. La prima era che ci fosse la tendenza a un pensiero unico; la seconda paura era che ci si rifugiasse nel pensiero unico perché vittime del pensiero debole. Il rischio era quello di un unanimismo di facciata».
La paura le è passata?
«Renzi ha stravolto questo paradigma. Nel Pd non c’è un pensiero unico, c’è un confronto vero. Non c’è un pensiero debole e non vedo un leader in grado di aggregare con la capacità e il consenso di Renzi. Anche la minoranza deve ammettere che il segretario è una risorsa e l’ultima direzione ha segnato un passo avanti. Intorno alla legge elettorale c’è stata una sintesi politica e non un unanimismo di facciata. Io non ho mai sgomitato per salire sul carro remano, vedo invece tanti che sgomitano per provare a scendere. Ma chi vuole bene alla democrazia e al Paese deve avere a cuore il Pd».
L’originaria vocazione maggioritaria del Pd appartiene al passato. Si va verso le coalizioni. Renzi è più convinto o obbligato a fare questa scelta?
«Guardando alla dialettica politica italiana tante volte ho pensato alle critiche del M5s per il quale qualsiasi cosa facciamo o proponiamo o è troppo poco o è troppo tardi. Il M5s ha come unico obiettivo quello di rendere la democrazia più fragile e dare la sensazione di un pantano in cui nessuno decide».
Che c’entra il M5s con le scelte del Pd? Forse perché il Rosatelltum è pensato anche per non far vincere i grillini?
«Il pragmatismo insegna che si vincono le elezioni non perché c’è una legge migliore di un’altra ma perché c’è un consenso. Il Rosatellum è una mediazione che consente di avere un sistema con una parte di maggioritario e una parte più consistente di proporzionale. È l’unico meccanismo che poteva passare in questa fase. L’ho votato e sono contento. La legge perfetta è come quello che cerca l’isola che non c’è. Il Pd ha avuto il merito di allargare il perimetro della maggioranza e si è assunto la responsabilità di dare agli italiani la possibilità di scegliere».
Ma un centrosinistra che non cominci a litigare il giorno dopo le elezioni come si costruisce?
«C’è una tendenza a ragionare di soggetti politici che esistono nel palazzo. Partendo dall’attuale maggioranza, bisogna invece allargare a quei soggetti che esistono nel paese aiutandoli a trovare la capacità di esprimersi e ad essere presenza nel palazzo».