L’ex presidente della commissione parlamentare d’inchiesta, Giuseppe Fioroni ha scritto un libro che racconta la sua esperienza e avverte: «Su Moro la verità va cercata all’estero».
Una coincidenza. Soltanto una coincidenza, ma per essere tale con uno straordinario significato simbolico. La commissione parlamentare d’inchiesta sul rapimento e sull’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta ha concluso i lavori – con l’approvazione all’unanimità di Camerae Senato della relazione finale – il 12 dicembre 2017, esattamente a 48 anni dell’esplosione della bomba alla Banca dell’Agricoltura di plazza Fontana a Milano. Quasi a voler sottolineare l’esistenza di un filo che lega due tra gli episodi più inquietanti, comunque ancora misteriosi e oscuri, nella storia della democrazia italiana.
Soltanto una coincidenza?
«Beh, quello era l’ultimo giorno prima dello scioglimento del Parlamento. Comunque, ha il valore di un ulteriore appello alla necessità di far conoscere che cosa sia davvero accaduto», risponde Giuseppe Fioroni, ex deputato Pd, presidente
della commissione. Con Maria Antonietta Calabrò sta per far uscire un libro che racconta la sua esperienza, con un titolo che contiene il senso dell’attività svolta: «Moro. Il caso non è chiuso».
Fioroni, perché il caso Moro non è chiuso a 40 anni da quei 55 giorni?
«Proprio per i numerosi elementi che la commissione ha portato alla luce. Si tratta di argomenti di natura non soltanto giudiziaria, ma anche culturale e politico.Forse da questi occorrerebbe cominciare quando si riflette sulla fine di Moro».
Quali sono?
«La democrazia italiana non ha fatto completamente i conti con il caso Moro. Non lo ha fatto perché non ha riflettuto a sufficienza sulla rilevanza di una vicenda che rappresenta uno spartiacque fondamentale nella storia nazionale non soltanto per le conseguenze registrate 40 anni fa ma per gli effetti che ha avuto sulla vita delle generazioni future. Moro aveva indicato la strada per la rinascita della democrazia proponendo un disegno compiuto che ne allargava la base. Dire compromesso storico è generico e banalizzante: si trattava di disegnare un momento di condivisione tra le due grandi forze politiche popolari del Paese che avrebbe liberato la D c dalla sua immobilità nella gestione del potere e coinvolto i milioni di elettori del Pci. Lui, con un pensiero lungo e profetico, aveva compreso il punto di crisi del sistema italiano e offerto una soluzione con un grande progetto. Dopo la sua morte si è navigato a vista e oggi siamo giunti in un pantano».
Chi ha voluto interrompere questo percorso?
«Moro agiva in un contesto internazionale dominato dalla divisione in blocchi e Yalta consegnava al bacino del Mediterraneo la dimensione del luogo dello scontro. Lui, invece, immaginava per l’Italia un ruolo autonomo e il lavoro della commissione ha consentito di recuperare informative e documenti relativi ai rapporti tra i servizi italiani e quelli palestinesi che danno la possibilità di comprendere aspetti della trattativa per una liberazione di Moro, della comunicazione con i brigatisti e del condizionamento che derivavano dalla dimensione internazionale».
Dunque, le Br furono strumento di una strategia decisa altrove?
«Moro è stato rapito, interrogato e giustiziato dalle Br. Le ingerenze possono riguardare la fase aperta tra via Fani e via Gaetani, quando c`è stato chi avrebbe potuto aiutare a liberarlo e non ha agito. Durante i 55 giorni hanno operato i numerosi nemici di Moro e del suo progetto. Ma occorre non dimenticare che i brigatisti costituiscono una parte importante nel network del terrorismo internazionale che va dai palestinesi alla Raf tedesca fino ai gruppi giapponesi. Non valutare questo dato fa correre il rischio di adottare una interpretazione minimalistica dell’accaduto, basata sul memoriale di Morucci e Faranda: memoriale soltanto in parte di Morucci e quasi per niente di Faranda».
Nelle Br ci sono stati infiltrati?
«Sì, e con relativa facilità negli anni prece denti il sequestro e poi in quelli successivi. Ci sono troppi punti bui che ci portano ad affermarlo, dall’avvertimento dei palestinesi di Habbash il 18 febbraio 1978 al numero dei terroristi in azione a via Fani, 20 e non 12, fino alla funzione del Bar Olivetti e al coinvolgimento della Banda della Magliana».
Verità allora indicibili. Oggi?
«Troppe lacune e omissioni. Oggettivamente sono stati compiuti passi avanti e la commissione ha segnalato numerosi elementi all’autorità giudiziaria. Resta il limite della conoscibilità dei documentidi Stati esteri, che ha riguardato anche altri episodi di strage. Sono informazioni che 40 anni fa avrebbero consentito importanti svolte e il raggiungimento della verità. Oggi, il tempo trascorso ha sancito una distanza. Però l’approfondimento è decisivo per poter affermare una consapevolezza che resta interesse prioritario del nostro Paese, colmando i vuoti di verità della vicenda Moro e di altre pagine della storia italiana recente».