Il Pd di Nicola Zingaretti è oggi la principale forza della maggioranza e sfida la Lega come primo partito nazionale.
Può svolgere (come fece Salvini con il governo giallo-verde) il ruolo di guida della coalizione? A dire il vero, il Pd si è già intestato il cambiamento più importante del Conte bis: l’Europa.
L’abbandono del sovranismo (o meglio,del nazionalismo: un’Italia isolata dall’Unione europea oggi sarebbe meno sovrana, in un mondo di giganti) è un ribaltamento di prospettiva che ha riscritto la storia: senza il ruolo del Pd al governo e in Europa, la svolta del piano Next Generation Eu, che vede l’Unione per la prima volta abbandonare i dogmi dell’ortodossia di bilancio, introdurre gli eurobond e virare con decisione verso una politica keynesiana, per l’ambiente e contro le disuguaglianze, non sarebbe stata possibile.
L’Europa che sembrava destinata a indebolirsi e disgregarsi ha ritrovato coesione e forza, respingendo l’assalto della democrazia illiberale. In parlamento, dopo la scissione di Matteo Renzi i numeri del Pd sono ridotti: è la quarta forza, con il 13 per cento dei parlamentari, contro il 31 per cento dei Cinque stelle (il 20 della Lega, il 16 di Forza Italia).
Questo però non è l’ostacolo principale.
Può diventare addirittura un vantaggio: il Pd è il partito che ha meno da perdere da eventuali elezioni e, anzi, probabilmente ci guadagnerebbe (anche dopo il taglio dei parlamentari); tanto più che adesso l’esito è completamente aperto, specie con una legge proporzionale. L’ostacolo affinché il Pd eserciti fino in fondo la sua funzione di leadership è politico. Non a caso finora la svolta vi è stata in Europa: perché su quel terreno tutto il partito (e anche Italia Viva) è concorde.
Non a caso, probabilmente, il Pd riuscirà a cogliere a breve alcuni traguardi importanti, come il superamento dei decreti Salvini: perché anche su quel terreno il partito è (ormai) concorde. Ma sul resto? Il reddito di cittadinanza, per esempio, andrebbe migliorato, per contrastare meglio la povertà (modificandone i requisiti di accesso a favore delle famiglie numerose, abbassando gli anni di residenza richiesti), oltre che con politiche del lavoro davvero efficaci: ma per fare questo bisogna anche riconoscere a quella misura la sua importanza, specie nella fase del Covid. Il Pd dovrebbe fare sua l’idea di un sostegno universale al reddito (che infatti esiste in quasi tutti i paesi avanzati); e da lì, migliorare quello che c’è.
Più in generale, dovrebbe fare sue le politiche di riduzione delle disuguaglianze: dalla riforma organica degli ammortizzatori sociali a quella della tassazione in senso progressivo, alle politiche per l’equità di genere e per il Mezzogiorno; dovrebbe cioè chiarire in modo inequivocabile che lo sviluppo e l’equità non sono in contrapposizione, ma devono andare insieme (specie in un paese come l’Italia).
Il Pd dovrebbe fare sua fino in fondo la bandiera per la riconversione ecologica, quella per una scuola di qualità degna di un paese avanzato (e pubblica), quella per una sanità che garantisca per tutti il diritto alla salute (e pure pubblica), ma anche per uno Stato rinvigorito ed efficiente, per un lavoro sicuro e ben pagato.
Il Pd riuscirà a imprimere la svolta attesa solo se avrà chiarito la sua natura: su che cosa vuol dire essere riformisti oggi, in un mondo e in un’Europa molto diversi da quelli degli anni Novanta.
Riformismo vuol dire dare diritti, non toglierli. Vuol dire avere l’ambizione di governare lo sviluppo economico in direzione dei diritti sociali, civili e ambientali. Questa deve oggi la missione del Pd, in Italia e in Europa.