Aprire un confronto sull’utilità di cambiare le regole fiscali a livello europeo non può essere considerato un tabù. La risposta macroeconomica alla Grande Recessione da parte dell’Ue è stata ostacolata (anche se non impedita del tutto) da quelle regole. Con meno austerità saremmo usciti prima dalla crisi. Nello stesso tempo, chi ha potuto violarle Io ha fatto. Se si guarda al deficit e al debito dei paesi dell’Eurozona, due volte su tre queste grandezze violano le regole fiscali. Il problema è che tutto avviene in maniera barocca, senza coordinamento e in stanze chiuse. Dobbiamo tornare a regole semplici. Così che i margini di discrezionalità nella gestione ciclica della politica fiscale siano azionati in modo trasparente dalla politica, non sulla base di algoritmi imperfetti o di estenuanti negoziati sugli zero virgola.
Norme barocche
Si pensi alla regola che usa l’output gap (la stima che dovrebbe isolare la componente ciclica degli andamenti dell’economia): ormai esiste un’ampia letteratura sugli errori metodologici e sulle distorsioni, particolarmente penalizzanti per l’Italia, delle stime europee. Con tutto il rispetto per l’econometria (che insegno), siamo sicuri di voler affidare le nostre tasse e i nostri investimenti a una disputa metodologica? Non solo il Fiscal Compact non deve essere inserito nei trattati (per evitare un’insidiosa deriva «giudiziaria» della politica economica), ma va rivisto.
Chiariamo subito due punti. Primo: superare il Fiscal Compact non vuol dire «liberi tutti», rottamiamo la disciplina di bilancio. Al contrario, far finta di niente, lasciando in piedi regole barocche violabili a piacimento, rischia di alimentare le spinte centrifughe. Regole semplici (accompagnate da passi concreti verso un’Unione fiscale con ulteriori cessioni di sovranità) sono l’esatto contrario del «liberi tutti».
Secondo punto: superare il Fiscal Compact non vuol dire reclamare politiche pro-cicliche per l’Italia. I margini di discrezionalità fiscale che dovessero crearsi andranno usati in base agli andamenti dell’economia. Negli ultimi tre anni, il nostro paese ha compiuto uno sforzo incredibile di riforme strutturali, rispettando nello stesso tempo le regole europee e dimezzando le procedure d’infrazione. Non possiamo accettare la caricatura che qualcuno ancora fa di un paese ripiegato su stesso, che non sa far altro che spendere in disavanzo. La crescita potenziale dipende dalle riforme strutturali, dagli investimenti (in primis in capitale umano) e dall’aggiustamento che saprà fare il nostro tessuto produttivo. Ma ciò non toglie che in certi frangenti servano politiche congiunturali in grado di dare ossigeno a famiglie e imprese. Nessuno propone di fare politiche pro-cicliche, ma di riappropriarsi di politiche anti-cicliche senza le quali la ripresa rischia di rallentare e le riforme di impantanarsi.
Le regole fiscali sono sempre un po’ stupide, perché ti legano le mani anche quando avresti bisogno di discrezionalità. Ma non sono lì per stupidità. Esistono, piuttosto, per assenza di fiducia. Gli europei le hanno introdotte perché non si fidavano l’uno dell’altro. E noi italiani le abbiamo recepite perché non ci fidavamo di noi stessi.
Obiettivo comune
L’Europa è rimasta bloccata da quello che gli scienziati sociali chiamano «dilemma del prigioniero», cioè l’incapacità di cooperare in vista di un obiettivo comune. I paesi del centro, Germania in testa, avrebbero dovuto accettare un po’ d’inflazione in più e un po’ d’austerità in meno, ma temevano che i paesi della periferia si sarebbero limitati a vivacchiare senza fare riforme. I paesi della periferia temevano invece che la sola disciplina fiscale li avrebbe avvitati in una spirale recessiva, come purtroppo è avvenuto.
Adesso, dobbiamo guardare oltre. Imparare dagli errori del passato. Ricostruire la fiducia con un dibattito franco che non elevi certe regole a tabù. E, soprattutto, dobbiamo ampliare l’orizzonte della discussione. L’obiettivo di tornare a Maastricht, cioè a regole semplici, deve essere accompagnato dall’accelerazione verso una vera Unione fiscale per l’Eurozona. Creando, cioè, una vera e propria istituzione politica che sia in grado di emettere bond per gestire la domanda aggregata e intervenire in caso di rischi sistemici, usando come garanzia flussi futuri di gettito fiscale ceduti dai paesi aderenti. Questo significa cedere sovranità. Ma cedendola a una politica europea che superi la logica intergovernativa. Altro che ritorno all’Italietta del deficit spending. Qui stiamo parlando di creare la fiducia necessaria – a partire da quella dei cittadini prostrati da anni di crisi a cui l’Europa non ha saputo dare risposte adeguate – per fare un passo in avanti verso un’Unione ancora più perfetta.