Era il 28 novembre del 1980. Mi ricordo una figura minuta, sottile, un po’ incurvata. Arrivò con un fascio di giornali e andò al tavolo della presidenza. C’era tensione, anche paura, in tanti scoramento. Ero un giovanissimo militante della FGCI di Salerno e il terremoto di 5 giorni prima, quei terribili 35 secondi, aveva raso al suolo gran parte dell’entroterra campano e seppellito tra le macerie oltre 2000 vittime.
Quell’uomo esile e carismatico, sottile e forte, gentile e fermo, era Enrico Berlinguer, il capo del partito Comunista italiano. Andò su luoghi della tragedia, vide paesi sventrati, comunità disperse e disperate, spesso già fiaccate dall’arretratezza, dall’emigrazione, dalla mancanza di sviluppo e lavoro. Rimase a lungo silenzioso, poche domande rivolte ai dirigenti locali, osservò il disastro.
Poi comunicò a Salerno la fine di una lunga fase, durata otto difficilissimi anni, che avevano caratterizzato la proposta politica del PCI e che si era chiamata compromesso storico. La necessità di un dialogo e di un incontro con i cattolici e con la democrazia cristiana, maturata agli inizi della segreteria di Enrico Berlinguer, all’inizio degli anni Settanta, per fermare il pericolo di crescenti tentazioni autoritarie e golpiste, il connubio di poteri oscuri e criminali con parti dello Stato, la saldatura di un blocco conservatore e reazionario.
Furono anni complessi, segnati da vittorie elettorali, dall’illusione di poter entrare a pieno titolo nell’area di governo, da momenti tragici come il rapimento e l’uccisione di Moro, dal terrorismo e dalla strategia della tensione. Il compromesso storico sfociò in una formula di governo cauta e insufficiente, nella solidarietà nazionale, con il PCI relegato a forme di sostegno esterno a governi dominati dalla democrazia cristiana.
Furono gli anni anche di una nuova collocazione strategica internazionale del PCI, progressivamente conscio della necessità di liberarsi dall’asfissiante rapporto con il sistema totalitario e illiberale dell’Unione Sovietica e di accettare pienamente la collocazione dell’Italia nell’area atlantica. Il tentativo di dare vita ad un’alleanza dei partiti comunisti europei, e ad una loro autonomia da Mosca, ebbe la funzione di rendere progressivamente evidente e non più rinviabile un processo di distanziamento, che sfociò nell’espressione usata da Berlinguer nel 1979 sull’esaurimento di una “spinta propulsiva” iniziata con la rivoluzione di ottobre.
Era il tentativo di reinventare la sinistra, riducendo al minimo gli inevitabili contraccolpi di un radicale cambiamento.
Spinto da quelle macerie, da quella tragedia, Berlinguer portò a sintesi e conclusione le riflessioni, e l’amarezza, maturata nell’ultimo triennio degli anni settanta: era giunto il momento di riportare il PCI all’opposizione e di attestarlo sul fronte dell’alternativa democratica. Quella che Emanuele Macaluso definì la seconda svolta di Salerno, fu una seconda vita di Enrico Berlinguer e della sua leadership del PCI.
Furono gli anni nei quali il PCI sollevò la questione morale come questione nazionale, denunciò il crescere del peso delle mafie nell’economia e le sue collusioni con la politica di governo, aprì un duro scontro sociale a difesa della scala mobile, si aprì con più radicalità alle istanze femministe e pacifiste. Furono anche gli anni dello scontro con Il nuovo Psi di Craxi emerso dal Midas e che appariva all’improvviso come una forza più attrattiva e moderna, più in grado di contrastare l’egemonia democristiana, più in linea con le paillettes e l’edonismo del decennio che si apriva.
Anche quegli ultimi quattro anni di segreteria di Berlinguer non furono semplici e furono segnati da arretramenti e sconfitte.
La sera del 7 giugno 1984, durante quel comizio a Padova, vedemmo Berlinguer soffrire, annaspare, riprendere testardamente la voce e il filo del suo comizio, esortare ancora una volta i militanti e i dirigenti a non fermarsi, a lavorare, a combattere per i propri ideali. E poi quattro giorni di agonia, di angoscia, di sofferenza per una parte del Paese che lo riconosceva come il leader, il punto di riferimento. Di dispiacere e partecipazione per tutti gli altri, che gli riconoscevano una serietà, una dirittura morale, una coerenza con le sue idee, non comuni, quasi fuori dal tempo.
Fu facile per gli italiani pensare, e dire, Berlinguer ti vogliamo bene.
Rimane tanto di Berlinguer nella storia e nell’immaginario italiano, anche oggi. Rimane il tratto politico: rigoroso, lucido, appassionato. Rimane il tratto umano: dolce, gentile, pacato, sorridente. Rimane il tratto teorico: l’ostinazione della ricerca, della voglia di capire, della necessità di interpretare un mondo intricato, difficile, attraversato da impetuose trasformazioni. Rimane la determinazione a guidare il più grande partito comunista dell’occidente verso la lotta per una società più giusta, più libera, più democratica.
Il PD è un incrocio di culture progressiste e riformiste diverse, tutte coessenziali. L’insegnamento di Berlinguer, come quello di altri grandi protagonisti positivi della nostra storia, ci appartiene.
E mi appartiene quell’immagine che conserva un giovanissimo militante meridionale, quel fotogramma che contribuì a cambiare il corso della storia.
Nicola Oddati, responsabile Cultura e Coordinamento dell’iniziativa politica del Partito democratico su Immagina