«Prima ancora di un piano industriale per l’Italia, serve un piano industriale che faccia funzionare i ministeri: uno per quello dello Sviluppo economico, uno per il Mef, uno per quello del Lavoro». Tommaso Nannicini, 43 anni, per 11 mesi, con Matteo Renzi premier, è stato sottosegretario a Palazzo Chigi con delega alle politiche economiche. Ora, da responsabile economico del Pd, replica al ministro Carlo Calenda che su Repubblica ha rilanciato la necessità di un piano industriale per l’Italia: «Più che la caccia allo slogan del secolo, abbiamo bisogno che molti dei piani ambiziosi finora lanciati vengano attuati».
Su questo fronte vede un certo immobilismo?
«La politica si deve riappropriare del controllo e dell’indirizzo rispetto alle tecnostrutture: molti ritardi stanno nella fase dell’implementazione, non in quella della formulazione delle idee».
Colpa delle burocrazie?
«Dall’osservatorio di Palazzo Chigi ho notato che un grande scoglio è la mancanza di coordinamento: gli interventi necessari non sono più settoriali ma trasversali ai ministeri. E poi ho visto tentativi di scaricabarile, lungaggini varie, volontà di coltivare il proprio orticello anziché lavorare di squadra».
Il riferimento è anche al ministro Calenda?
«Calenda ha una forte individualità, ma sa fare gioco di squadra. Le squadre hanno giocatori forti ma poi serve uno schema armonioso. Il mio discorso non era riferito ai singoli ministri ma ai rapporti tra tecnostrutture. Per semplificare: l’indirizzo politico lo decide il governo, non un capo di gabinetto».
Torniamo al piano industriale.
«Credo sia necessario allargare l’ottica e passare da Industria 4.0 a Impresa 4.0: c’è un tessuto di imprenditorialità medio-piccola che è un pilastro della capacità produttiva dell’Italia: va aiutato a digitalizzarsi, a stare sul mercato internazionale».
Non basta più la politica di incentivi?
«Attraverso gli strumenti messi in camice dal governo Renzi volevamo dare una spinta congiunturale a chi voleva investire sulla propria capacità di fare impresa. Adesso si pone il tema di una strategia di aggiustamento strutturale».
In che modo?
«Se non ci può essere un taglio del cuneo generalizzato meglio farlo selettivo, su alcune fasce come i giovani, con una decontribuzione mirata».
Vi aspettavate di più dal jobs act?
«Mi aspettavo anche meno. Quella riforma era pensata per far cadere il muro tra protetti e non protetti e rendere più facile la transizione tra impiego non stabile e impiego stabile. La sostanza è che rispetto a più di un milione di posti di lavoro bruciati dalla crisi, in due anni è stato colmato quasi l’80%, in gran parte con lavoro stabile».
Come dev’essere la prossima manovra?
«Bisogna continuare col percorso già avviato in questi tre anni aggiungendo i tasselli mancanti: dal taglio strutturale del costo del lavoro stabile a un intervento sull’Irpef che tagli il carico fiscale alle famiglie con figli fino alle politiche attive sul lavoro».
La crisi non è alle spalle, dice Calenda. C’è stato troppo ottimismo da parte di Renzi?
«La crisi è alle spalle: siamo usciti dalla recessione. Non è una crescita da sogno ma ci siamo rimessi in moto. Il messaggio di Renzi era giusto: questo Paese ce la può fare. Forse è stato letto come un modo per dire: “Ce l’abbiamo fatta perché siamo arrivati noi”. È chiaro che non abbiamo risolto tutti i problemi. Ma dobbiamo andare avanti. Prima di noi c’erano stagnazione e scarsa produttività. Adesso crescono occupazione, produzione industriale e Pil: tutti a discutere del carattere di Renzi, perché le riforme di Renzi non le contesta più nessuno».
Rispetto alla concorrenza degli altri Paesi Calenda propone una norma “anti-scorrerie”.
«Se aumenta gli strumenti conoscitivi della politica, senza intrusioni nel mercato, può essere utile. L’Italia, però, non è terra di conquista. E l’Europa deve ridurre la competizione aggressiva tra Paesi sul fronte fiscale e parlare con una voce sola di fronte ai rigurgiti protezionistici nel mondo».