“A gennaio Barack Obama lascerà la Casa Bianca. Ci entrò nell’incredulità del mondo sull’onda dello slogan più bello della storia recente. “Sì, possiamo”. Anche se usato, ma è usato sicuro, converrebbe ripartire da lì”. Così Gianni Cuperlo in un intervento su l’Unità.
Un giudizio che sembra profezia
“Guasto è il mondo” ha scritto Tony Judt qualche anno fa. A mettere in sequenza i corpi nel Mediterraneo, e Dacca e Nizza, il delirio di Trump o il golpe mancato ad Ankara quel giudizio sembra profezia. L’Europa con Brexit perde i pezzi frastornata da eventi più grandi delle élite che la comandano. Ma se Bruxelles farfuglia la sinistra non brilla.
L’ultimo congresso del PSE ha avuto l’eco di un convegno del Rotary. Partiti affratellati parlano lingue diverse mentre movimenti nuovi scalano il consenso, ad Atene e Madrid. Il PD è la prima forza di quel campo. Bene che l’assemblea di sabato sia rivolta a questo. Molto meglio se da lì facciamo uscire l’appello ai socialisti europei per riscrivere il perimetro della sinistra.
Il destino di sinistra e Pd
Poi c’è l’Italia, un’economia che fatica, un’etica pubblica fragile. E il referendum, le città, il destino di sinistra e Pd.
Tenere assieme tutto è complicato, ma ordinare qualche pensiero, questo sì, bisogna farlo. Ai ballottaggi la sconfitta è piovuta pesante. Non è solo quanto si è perso, ma come. Parte del nostro mondo ha votato “contro” di noi. Tanti per colpire governo, premier e Pd. Altri per archiviare un ciclo, come a Torino. Ora, una sola cosa è peggio della sconfitta. Rimuoverla.
Possiamo addolcire l’amaro, ma il quadro d’insieme sconsola. Perdiamo iscritti, consensi, fiducia verso ciò che dovremmo rappresentare.
Da due anni c’è una commissione che doveva produrre una riforma del partito. Se ne son perse le tracce. Ci sono parti del Paese dove il sogno dei Democratici è oggi l’incubo di potentati in guerra. Le stesse campagne elettorali si organizzano per correnti, e non da ieri. Ciascuno porta preferenze ai “suoi”.
Un nuovo centrosinistra
La politica travolge verità che paiono di marmo. A oggi parte del voto di sinistra che non crede in noi si è volto a Grillo, parte all’astensione. Non so come tutto evolverà ma una cosa credo di sapere.
Chi pensa che il “Palazzo d’Inverno” è espugnato e ha vinto un ceppo soltanto del riformismo, quello più prossimo al potere sì che la sinistra può portare soccorso ma senza mire, ecco chi dovesse coltivare questa attesa è bene rifletta. Perché delle due l’una. Se il Partito Democratico vivrà il prossimo referendum come passe partout per stabilizzare la maggioranza di governo che c’è emarginando la sinistra fuori e dentro il PD, banalmente morirà il PD che a quel punto sarà un’altra cosa. L’alternativa è riconoscere che in due anni il partito pigliatutto o “della Nazione” è sbandato e ha perso voti. Una classe dirigente consapevole ne prenderebbe atto e imboccherebbe un’altra strada. A cominciare da un nuovo centrosinistra.
La svolta necessaria
Prima del partito, si dice, viene il Paese. Giusto. Il punto è che il Paese stenta. Colpa di riforme tutte brillanti ma vendute male? Non è così. Abbiamo perso voti anche per contenuti e messaggi sbagliati. Se diciamo che tutto era un bengodi, quelli ce li giochiamo per sempre. La realtà è severa. Si è puntato su un cavallo zoppo: flessibilità in più nel lavoro, contrazione espansiva con meno tasse e spese, bonus e sussidi per rilanciare i consumi.
Questo racconto ha gonfiato attese che la vita di troppi ha presto bucato.
Non discuto le buone pratiche. Il “Dopo di noi” e un “Reddito di inclusione”, Migration compact o le strigliate sulla crescita: su questo e altro dico bene così e andiamo avanti. Ma è la legge dei numeri a smentire l’impianto di politica economica seguito fin qui. Serve correggere rotta. Bisogna farlo almeno se crediamo che dopo la grande recessione vanno ripensati sviluppo, investimenti, diritti. Partendo dal vero dramma che ha il nome di questione sociale: 4 milioni e mezzo di poveri. Servono sette miliardi perché il 91 per cento delle famiglie esca da quella soglia.
Si cambi l’Italicum
Sullo sfondo c’è il referendum destinato a cambiare la Costituzione. Ragioni politiche per votare Sì ci sono a partire dal superamento del bicameralismo che c’è. Ragioni di merito per votare No ci sono pure, e non poche. Solo la politica non giustifica il Sì. Solo il merito non giustifica il No. Per trovare la risposta giusta i due piani vanno mescolati. Parto dal merito. La riforma è scritta male, in alcune parti è confusa. Bene che la fiducia sia votata solo dalla Camera, su questo l’accordo è pieno. Ma chi parla di semplificazione del processo legislativo non ha letto bene. Dal procedimenti attuali si transita a 10, e a descriverli non basterebbe la pagina. Il Senato rappresenterà le istituzioni territoriali, ma se questo fosse i senatori andrebbero eletti dagli esecutivi e con vincolo di mandato.
Il punto è che l’Italicum cambia la forma di governo che scivola dal regime parlamentare a uno presidenziale, e senza i contrappesi dovuti. Quando si obbligano i partiti che “si candidano a governare” a depositare assieme al programma “nome e cognome della persona… indicata come capo della forza politica” questo succede. Che il futuro premier di fatto sarà “eletto” dal popolo. Accadrà con un sistema iper maggioritario destinato a produrre una miscela indigeribile.
Non spaccare il Paese
So che molti, a sinistra e non solo, chiedono una posizione netta e nell’immediato. Insomma, “cos’è sto cincischiare senza dire Sì e neanche No?”. Provo a spiegarla la ragione di questo limbo. E se ci scappa una punta più enfatica, non è retorica ma convinzione. Allora, l’intreccio della recessione peggiore della nostra vita col crollo di fiducia verso istituzioni e partiti espone l’Italia a una crepa della democrazia. Non per forza un balzo nell’autoritarismo. Più semplicemente il pericolo è l’impraticabilità di un altro e nuovo patto civile e sociale. Il solo che può tirarci fuori da guasti e ritardi cumulati nel tempo.
Penso che Renzi alle ultime primarie non abbia usurpato alcunché e se ha vinto è accaduto per una spinta forte a togliere tappi e sbloccare conservazioni e chiusure. Il punto è che arrivato al potere non lo ha fatto preferendo fedeltà e trasformismi. E oggi quella che per tanti era stata una speranza sincera, proiettata nel 40 per cento alle europee, si è mutata in delusione.
Tutto questo pesa, e molto, soprattutto perché una crisi del genere di quella che ci ha investito non la risolvi dividendo la società. Ecco perché siamo tutti a rischio.
E perché, anche pagando un prezzo, sento che dobbiamo tentare noi, fino all’ultimo, di non spaccare il Paese, annodando il filo di un campo aperto del centrosinistra. Sarò malato di un ottimismo incorreggibile ma fino all’ultimo continuerò a dire, niente steccati.
Questo è il tempo dei ponti.
Leggi l’intervento completo di Gianni Cuperlo su l’Unità.