Per il Pd voleva dire farsi carico di legalità e sicurezza senza per ciò alimentare paure o quella moderna xenofobia che inguaia l’Europa sotto l’onda di antichi e nuovi populismi. Parliamo di una deriva culturale figlia anche del pudore della sinistra a ripetere valori di solidarietà e fratellanza scolpiti nel suo passato. Valori da declinare nel tempo nostro sul piano dell’inclusione sociale e lasciandosi alle spalle ogni relativismo culturale.
Su queste basi e con qualche tenacia abbiamo motivato le ragioni che a nostro avviso dovevano smantellare il pacchetto sicurezza firmato dall’allora ministro Maroni, a partire dal reato di clandestinità – reato depenalizzato ma mai abolito – per arrivare al superamento dei CIE con le loro regole inumane e la previsione fino a 18 mesi di trattenimento per l’identificazione e successiva espulsione. In quelle strutture erano bloccati migranti colpevoli di essere degli “irregolari”.
Vuol dire donne e uomini che non avevano commesso alcun reato di rilevanza penale. È stata una battaglia di civiltà che ne ha ridotto il numero complessivo riportando i tempi di trattenimento a un massimo di tre mesi per coloro che non si era riusciti a identificare. Chiamiamoli pure piccoli passi avanti nel rispetto di Schengen che puntavano a superare luoghi di approdo per migranti irregolari senza distinzione fra donne vittime di tratta, stranieri senza documenti in regola, minori non accompagnati o ex detenuti in attesa di espulsione dopo avere scontato la pena. Per maggiore chiarezza, i CIE erano divenuti nei fatti luoghi di detenzione. Come tali chiusi e sorvegliati da forze di polizia. Strutture extra ordinem con tutele inferiori a quelle garantite nei nostri istituti penitenziari. Un paradosso a cui si sommavano altre anomalie che hanno reso per troppo quelle strutture vere e proprie “carceri informali”.
Per questo siamo rimasti perplessi e increduli nell’apprendere la volontà di aprirne di nuovi. Notizia accompagnata all’annuncio di una campagna di polizia alla “ricerca”di nuovi irregolari, con l’obiettivo di passare da cinque a diecimila o, se possibile, ventimila espulsioni l’anno.
Ora, è complicato quantificare le espulsioni con precisione almeno finché, come tuttora previsto, tocchi ai giudici valutare su eventuali responsabilità del singolo nel rispetto del diritto costituzionale alla difesa. Ma a parte questo specifico snodo, per altro rilevante, l’aspetto che più colpisce è il balzo culturale all’indietro di un approccio del genere.
Tanto meno comprensibile perché avviene a pochi giorni dall’insediamento di un governo che si pone in continuità con quello di prima caratterizzato invece da scelte differenti su un fronte delicato quanto mai e sottoposto al magma indifferenziato dell’equazione migranti eguale disordine, illegalità, terrorismo.
Non è questo -ne siamo certi – l’intendimento degli annunci di inizio anno, ma anche solo le reazioni che si sono levate da tanti nostri amministratori, sindaci e presidenti di regione, dovrebbe indurre il governo a grande cautela e un pronto ripensamento. Anche perché vi sono cose giuste che si possono fare come la strada della verifica e rinnovo di alcuni accordi bilaterali con i paesi di rimpatrio, questione sulla quale il ministro Minniti si è mosso con la visita a Tunisi e Malta.
Insomma, fuori da propaganda e retoriche sentimentali, riteniamo davvero che una battaglia puntuale per la legalità dovrebbe partire da premesse diverse. Poi certo, anche ricorrere,quando occorra e certamente servirà, alle espulsioni come del resto previsto dalle leggi in vigore. Garantire sicurezza ai cittadini italiani o regolarmente residenti da anni in questo paese, ristabilire la legalità in territori e filiere produttive oggi inquinati sono esigenze sacrosante e il nodo da sciogliere se vogliamo generare e rafforzare una convivenza civile.
Di più: questa è forse la più grande questione strategica destinata a condizionare nei prossimi anni il nostro dibattito pubblico. Ed è una questione che sta già cambiando profilo e natura delle nostre città, dalle scuole ai posti dove si lavora. Ne siamo consapevoli. Anche noi vorremmo che in Italia non ci fossero irregolari. Anzi vorremmo debellare le ragioni che determinano quella condizione e il suo sfruttamento da parte di imprese senza scrupoli. Ma proprio partendo da questa premessa vorremmo combattere a fondo l’irregolarità che degli irregolari è la causa. E’possibile riuscirci attraverso scelte di governo sagge e una battaglia a viso aperto contro paure legittime e rigurgiti razzisti che legittimi non sono mai.
Provarci significa assumere un’agenda di governo ambiziosa che affronti presto la questione annosa di un nuovo testo unico sull’immigrazione cestinando una volta e per sempre la Bossi-Fini. Vuol dire ripensare il sistema degli ingressi con regole chiare e flussi stabiliti anno per anno in modo flessibile e realistico, sola via assennata per incrociare domanda e offerta facendo incontrare la richiesta di lavoratori con le esigenze del sistemaproduttivo. Si tratta, ad esempio, di usare al meglio strumenti come lo sponsor svincolando sempre di più il permesso di soggiorno dalla condizione lavorativa come unico criterio valido, specie per chi dopo anni di permanenza regolare perde il lavoro e si trova dopo un anno a vestire i panni dell’irregolare.
L’esempio non appaia casuale perché quest’ultima tipologia rappresenta a oggi la grande maggioranza di chi non è in regola con le nostre leggi di permanenza. Sono persone che vivono da anni nel nostro Paese, spesso con figli nati o cresciuti in Italia e con mutui o affitti da pagare. Cittadini “a metà” a cui viene negato il rinnovo del documento di soggiorno non per aver commesso un reato ma quasi sempre per aver perso il lavoro. Una condizionedi svantaggio che anziché essere rimossa come recita la nostra Costituzione diviene causa potenziale di persecuzione. A queste osservazioni di merito si sommano quelle sul metodo scelto.
Perché affrontare un tema tanto sensibile con una circolare a Parlamento chiuso, annunciata agli organi di stampa come intervento di urgenza? E’una tempistica che rischia di indurre un messaggio sbagliato. Chiediamo se non sia utile piuttosto approvare in via definitiva la legge sui minori non accompagnati, approvata alla Camera dopo una lunga battaglia e ora ferma al Senato, destino che la accomuna a un’altra legge quella sullo ius soli, anche questa da approvare quanto prima insieme all’impegno di applicare la direttiva europea recepita dal Parlamento nel ‘94 e che prevedeva il diritto di voto alle amministrative. O infine se non sia questo anche il tempo per riaprire il dossier della legge sulla libertà religiosa, questione che riconoscerebbe il mutamento già avvenuto nella società e affermerebbe un’idea di cittadinanza piena a milioni di persone che hanno scelto per sé e i loro figli l’Italia come patria elettiva. Avremmo cosi meno immigrati a vita e tanti nuovi cittadini.
Sono queste le leggi che agirebbero come uno strumento di inclusione e coesione sociale formidabile. Sarebbe certamente la risposta più solida a quell’ansia di sicurezza comprensibile che interroga l’azione di chi governa e l’identità della sinistra, qui e nel resto d’Europa .