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Bellanova: “A Rignano una tragedia che non doveva accadere, tutti vedono il dramma di quelle zone”

«Quello che è accaduto a Rignano non è solo una tragedia del lavoro, e ancor peggio del lavoro precario e invisibile, né solo una tragedia dell’immigrazione clandestina o più o meno legalizzata. È una tragedia che non doveva accadere perché le condizioni di quella zona sono sotto gli occhi di tutti. E perché ci sono tutti i presupposti per impedire il ripetersi di questa odi altre tragedie». Effetti tragici provocati da cause evidenti: è soprattutto questa concatenazione a colpire, ed indignare, Teresa Bellanova, viceministro allo Sviluppo Economico.

 

Nell’Italia del 2017 si parla ancora di ghetti fatiscenti dove dormono esseri umani. Com’è possibile?

«Da anni lavoro e combatto perché tutto ciò abbia fine. Da anni dico che avrà fine solo se tutti gli attori istituzionali e sociali coinvolti lavorano dalla stessa parte della barricata e con gli stessi obiettivi. Mi sembra abbastanza chiaro, se leggo i commenti e i silenzi all’indomani degli arresti in Puglia per la morte di Paola Clemente, che così non sia».

 

I migranti di Rignano sono impiegati per la raccolta agricola, spesso sottopagati e sfruttati dalla criminalità. In tanti luoghi del Meridione lo Stato sembra essere assente

«Chi è lo Stato? Detta così sembra un’entità metafisica e lontana che poi magicamente si materializza. Il ghetto di Rignano,come altri luoghi, non si sconfigge perché all’alba arrivano le forze dell’ordine e lo smantellano. Non voglio che si ingenerino equivoci: il loro lavoro e quello della magistratura è encomiabile, prezioso, insostituibile. Ma quando accade è già troppo tardi. In Puglia abbiamo firmato protocolli su protocolli,organizzato convegni, promosso incontri e tavoli. Lo Stato è il Comune prossimo, è la Regione, sono le Prefetture. Poi ci sono le associazioni di categoria, le parti sociali, la cittadinanza attiva. Anche la società civile è un presidio della legalità. Andare in ordine sparso non serve. Non serve la foto il giorno della firma del Protocollo, se il giorno dopo non ci si mette tutti al lavoro per renderlo esigibile. Serve l’impegno di tutti. Così lo Stato diventa evidente. Con una postilla: in questi anni sembrava che il caporalato fosse solo una questione dei migranti clandestini, degli invisibili. Oggi, come venti anni fa, scopriamo che così non è. Oggi come allora il capolarato non è una minaccia solo per qualcuno, ma per tutti».

 

La baraccopoli di Rignano era sotto sequestro e sgombero per presunte infiltrazioni della criminalità. Ma applicare la legge senza dare delle alternative ai migranti della struttura, in termini soprattutto di lavoro, non
moltiplica disperazione e rabbia?

«È evidente. Allora capiamo quali strumenti possiamo e dobbiamo mettere in campo per dare una prospettiva. Mai come in questi anni il governo ha lavorato in questa direzione. I ministeri del Lavoro, dell’Agricoltura e della Giustizia hanno lavorato insieme. Abbiamo pensato e costruito insieme la legge e là strategia della Rete del lavoro agricolo di qualità. Anche a partire dalla profonda consapevolezza del rapporto profondo tra questione migratoria e sfruttamento del lavoro attraverso il caporalato. Certo, non basta. E se non si lavora insieme, Istituzioni,
Governo, Regioni, Comuni, Associazioni di categoria, imprese, anche quelle piccolissime, reti commerciali, grande distribuzione, vero e proprio anello debole della catena, mettendo a disposizione tutti gli strumenti possibili, e inventandone di nuovi, non basterà mai. Poi un monito ai consumatori: attenti che i pomodori acquistati a pochi centesimi non siano macchiati di sangue».

 

In Italia, mese dopo mese, sbarcano a migliaia. La prima accoglienza è l’emergenza iniziale, ma poi questa gente ha necessariamente bisogno di lavorare per vivere. Qual è la strategia del governo?

«Nei giorni scorsi il ministro Minniti ha annunziato misure non solo nuove ma soprattutto innovative che vanno in questa direzione. In questi anni abbiamo aperto un confronto e una vertenza con l’Europa su questo tema, che nessuno può pensare debba governare e gestire in assoluta solitudine il nostro Paese. I migranti arrivano sulle nostre coste perché noi siamo Europa, non perché vogliano restare in Italia. I numeri sono lì a dimostrarlo. Poi, è vero, da noi rimane la parte più debole. Per dirla in parole povere: gli ingegneri si dirigono altrove, da noi restano le persone più fragili, più impaurite, più sole e con meno strumenti. Forse una riflessione più puntuale anche su questo dovrebbe essere fatta».

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