Durante la notte tra domenica e lunedì scorsi, Matteo Renzi si è assunto la responsabilità personale della sconfitta al referendum costituzionale. Un fatto inedito in Italia. Ha detto a tutti quelli che si sono impegnati in questa campagna che ha perso lui, non loro. Quasi simultaneamente ho scritto un tweet per dire il contrario: abbiamo perso noi. Insieme. E ora vorrei provare a spiegare perché la penso così.
Si stima che circa l’80% degli elettori del PD abbia votato Sì al referendum. È un fatto importante: abbiamo una storia di difesa della Costituzione da tanti tentativi di manomissione ed essere noi a volerla ammodernare poteva suscitare dubbi o paure. Al netto degli strappi strumentali che tali si sono dimostrati quando autorevoli dirigenti della minoranza hanno esultato, non per la vittoria del no, ma per le dimissioni del Presidente del Consiglio abbiamo retto. Davanti a questa prova per il nostro popolo, il rapporto di fiducia ha funzionato. Ci siamo capiti, ci siamo fidati. Questa mia sensazione di fiducia fa il paio con i risultati del Sì regione per regione: siamo andati meglio in Emilia-Romagna e in Toscana o nella mia Umbria. Ossia là dove la nostra comunità è più riconosciuta come riferimento solido nella società.
Però. C’è un però ingombrante e preoccupante. “Quorum” per SkyTg24 stima il No all’81% tra i giovani fino ai 35 anni, al 67% tra le persone fino a 55, il Sì in maggioranza sopra i 55 anni. Non possiamo derubricare pensando che nella vita si nasce incendiari e si muore pompieri, né possiamo viceversa pensare che tutti i giovani abbiano trovato la riforma poco convincente: è più plausibile che ciò rifletta esattamente le difficoltà del PD e della sinistra di governo di tutta Europa nel parlare a generazioni che hanno prospettive meno rosee di quelle precedenti.
Ecco perché questi risultati chiamano in causa noi, Partito Democratico. Chiamano in causa la disconnessione da pezzi di società, che non dipende da un leader, ma dal modo in cui ciascuno di noi interpreta il proprio ruolo. Il problema è, oggi come ieri, riconnettere. Questa legislatura era cominciata con l’assunzione di responsabilità verso un percorso di riforme istituzionali: ricordiamo gli applausi del Parlamento alla rielezione di Napolitano e le sue parole. È un percorso cominciato quando Renzi faceva ancora il sindaco di Firenze. Renzi si è assunto poi meritoriamente la responsabilità di diventare la guida di quel percorso, che non era il suo, che non iniziava con lui. I cittadini hanno bocciato il risultato di questa parte di percorso e ne dobbiamo prendere atto.
Sicuramente l’accountability, il rendere conto, giova alla connessione tra paese e politica: perciò penso che tirare a campare con soluzioni raccogliticce, o ancor peggio nascondere la politica dietro l’alibi del governo tecnico, sarebbe irresponsabile perché equivarrebbe a soffiare sul fuoco della disconnessione. Perciò penso che si debba restituire quanto prima la parola agli elettori. L’ammodernamento delle istituzioni andrà avanti se i cittadini lo vorranno, tramite i loro rappresentanti, dopo un nuovo voto popolare. Ora a noi tocca ripartire da quel 40% d’italiani, quasi 13milioni e mezzo, che ci ha dato fiducia (alle Europee del 2014 erano 11 milioni) e riconquistare quella dei tanti che hanno scelto una strada diversa. Quanto alla direzione del PD, spero quindi che si riesca a guardare avanti, insieme al segretario Renzi, senza pensare di «chiuderci nelle nostre stanze» in estenuanti autoanalisi. Quella sì che sarebbe, a mio avviso, la fine del nostro partito: la disconnessione totale.