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25 novembre 2016Donne e uomini: siamo tutti in gioco

La Giornata internazionale contro la violenza sulle donne ci offre l’opportunità di condividere una riflessione sulla visione politica e culturale che orienta le cose abbiamo fatto e vogliamo continuare a fare.

La sintesi perfetta dell’approccio che abbiamo seguito è in uno dei primi atti, per le donne e per gli uomini, di questa legislatura: la ratifica della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, la Convenzione di Instanbul.

 

La ratifica ha segnato una strada chiara, che durante la legislatura abbiamo iniziato a percorrere, condividendo tutti – Istituzioni, mondi associativi e professionali, soggetti privati – un percorso politico, culturale e normativo di innovazione, di civiltà, di recupero e condivisione di conoscenza, per rimuovere attraverso leggi e comportamenti ciò che impedisce la piena cittadinanza delle donne.

Abbiamo strumenti di cultura nuovi, abbiamo condiviso la direzione da seguire, abbiamo contribuito alla crescita di consapevolezza della complessità del fenomeno e alla presa in carico da parte di tutte e tutti.

Ora dobbiamo dare continuità alle scelte fatte, agendo ciascuna e ciascuno con la propria funzione e responsabilità – politica, istituzionale, professionale, universitaria, associativa -, ma tutte e tutti con consapevolezza e obiettivi comuni: eliminare discriminazioni e violenze e costruire effettive pari opportunità.

 

Eliminare la violenza e costruire la parità di genere sono parte di un orizzonte di cambiamento dei percorsi di sviluppo sociale, economico, culturale.

Il segretario Generale dell’Onu Ban Ki-moon in un messaggio due giorni fa in vista della giornata Internazionale ha detto: “Sta finalmente crescendo a livello globale la consapevolezza che la violenza contro donne e ragazze rappresenti una violazione dei diritti umani, un’epidemia per la sanità pubblica e un serio ostacolo allo sviluppo sostenibile. Tuttavia, possiamo ancora fare molto per trasformare questa consapevolezza in una risposta significativa e in attività di prevenzione”.

Già nel promuovere l’Agenda 2030, nel settembre 2015, l’Onu ha inserito la parità di genere tra i 17 obiettivi da realizzare per costruire uno sviluppo sostenibile.

Non si tratta di un elenco sequenziale, e quindi la parità non è solo uno degli elementi di attenzione.

I goals previsti dall’Agenda 2030 sono una piattaforma integrata di valori, obiettivi e misure, in cui il superamento delle discriminazioni e delle disuguaglianze di genere attraversa, interagisce e si intreccia in un tessuto di fattori complementari di cambiamento.

Quelle contro la violenza e le discriminazioni e per la parità di genere diventano così politiche mainstreaming, che devono intervenire e agire in ogni campo, per superare ogni tipo di gap: povertà, salute, fame, educazione, lavoro, infrastrutture, tutto all’interno di un quadro di rispetto per l’ambiente e la natura, di attenzione ai cambiamenti climatici, di investimento in energie sostenibili e economia verde e innovativa.

 

Ma voglio tornare alla Convenzione di Istanbul, che in questo contesto ci fornisce davvero molti elementi guida.

La Convenzione ci fornisce non solo l’obiettivo da raggiungere, ma le definizioni da condividere, la complessità politica e culturale da affrontare, gli spazi su cui agire.

Riprendo alcuni passaggi, perché credo sia importante che assumiamo insieme la piena consapevolezza della sfida che la Convenzione ci pone.

Non è una quesitone di conoscenza, la Convenzione la conosciamo. Ma di consapevolezza collettiva, di valutazione dei punti di attenzione che poi ognuna e ognuno dovrà esercitare nelle proprie funzioni e attività.

 

Intanto la definizione.

L’art 3 dice che “con l’espressione “violenza nei confronti delle donne” si intende designare una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata”.

Violazione dei diritti umani”, e “danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica”: da una parte una categoria etica e normativa, dall’altra il segno multiforme di quanto sia ampio lo spazio su cui lavorare.

Questo è il primo punto su cui produrre consapevolezza diffusa, per orientare approcci culturali e d’azione.

Cosa dobbiamo tenere a mente: è una “Violazione dei diritti umani”.

Cosa dobbiamo fare: ridurre, fino ad eliminare, i “danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica”.

 

Faccio poi un passo indietro rispetto al testo della Convenzione e torno al Preambolo, in cui sono enunciati tre principi:

Il raggiungimento dell’uguaglianza di genere de jure e de facto è un elemento chiave per prevenire la violenza contro le donne”.

La violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini”.

Il riconoscimento della “natura strutturale della violenza contro le donne”.

Qui si coglie perché la Convenzione è la cornice generale di tutte la nostra azione: perché inquadra la violenza in un sistema politico, culturale, sociale, economico, istituzionale.

 

Stereotipi, pregiudizi, rapporti tra sessi in cui le donne sono considerate proprietà degli uomini, percorsi educativi pensati al maschile, linguaggi sessisti, deformata rappresentazione di ruolo di donne e uomini nell’informazione e nei media, assenza di equilibrio nella rappresentanza di genere nelle Istituzioni e nei Cda, lavori e carriere considerati accessibili solo agli uomini, disparità salariale, medicina e prestazioni sanitarie tarate sugli uomini, insufficienza di investimenti e servizi per garantire la maternità come scelta libera e consapevole, pochi investimenti sui servizi e i centri di assistenza per le vittime di violenza: la nostra cultura è intrisa di abitudini e comportamenti discriminatori, tutti connessi tra loro, tutti legati alle discriminazioni e alla violenza.

 

Ed infatti, tornando alla Convenzione, all’Articolo 12 si prevede che

Comma 1: “Le Parti adottano le misure necessarie per promuovere i cambiamenti nei comportamenti socio-culturali delle donne e degli uomini, al fine di eliminare pregiudizi, costumi, tradizioni e qualsiasi altra pratica basata sull’idea dell’inferiorità della donna o su modelli stereotipati dei ruoli delle donne e degli uomini”.

Comma 4: “Le Parti adottano le misure necessarie per incoraggiare tutti i membri della società, e in particolar modo gli uomini e i ragazzi, a contribuire attivamente alla prevenzione di ogni forma di violenza”.

Comma 5: “Le Parti vigilano affinché la cultura, gli usi e i costumi, la religione, la tradizione o il cosiddetto “onore” non possano essere in alcun modo utilizzati per giustificare nessun atto di violenza”.

 

Questa è la parte più dirompente della sfida che abbiamo accettato ratificando la Convenzione.

Cambiare la società, i nostri modelli culturali, le nostre rappresentazioni, i nostri linguaggi, le nostre abitudini, le nostre leggi, il nostro modo di stare al mondo e relazionarci con le differenze di genere, imparando a rispettarle e riconoscerne il valore.

 

La nostra società è ancora fortemente e profondamente maschilista e discriminatoria. E questo fa male: non alle donne, ma a tutta la società.

Potrebbe sembrare una banalità, ma è una conquista fondamentale: la parità di genere non è una questione delle donne, è una questione delle donne e degli uomini.

E il protagonismo degli uomini nelle battaglie per la parità di genere è l’altra grande conquista, culturale e pragmatica, su cui siamo impegnate e impegnati – a partire dalla campagna delle Nazioni Unite HeForShe.

 

Tutto quello che facciamo per le donne è utile anche all’insieme del Paese. Dobbiamo saperlo tutte e tutti, nel lavoro, nel modo di relazionarci e di comportarci ogni giorno.

Siamo tutte e tutti in gioco.

Si tratta della vita di ogni persona e nessuno può sentirsi estraneo o neutrale.

 

La Convenzione è un testo così bello e puntuale che offre a ciascuna e ciascuno uno spazio per esercitare la propria responsabilità.

Attribuisce responsabilità molto chiare alle Istituzioni, in primo luogo, per attuare la Convenzione stessa – ed è la ragione per cui riteniamo importante istituire la Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e su ogni forma di violenza di genere, per verificare come sta procedendo l’attuazione delle misure adottate da Governo e Parlamento.

 

La Convenzione poi promuove la partecipazione attiva di media, soggetti privati e formativi, associazionismo.

Elenca i comportamenti da considerare violenza e quindi reati, le misure di prevenzione, protezione e sostegno, presta attenzione a tutti i possibili casi di particolare vulnerabilità, comprese le bambine e i bambini.

Prevede campagne di informazione e sensibilizzazione, educazione di genere, formazione di figure professionali, servizi di supporto.

 

Davvero una visione e un quadro operativo di sistema.

D’altra parte se la violenza è una condizione di sistema, è solo agendo a livello di sistema che possiamo eliminarla.

 

In questi anni, con l’azione del Governo e del Parlamento, abbiamo fatto cose importanti, in quattro aree di intervento.

 

Il primo piano su cui abbiamo lavorato, quello più immediato, è quello delle azioni di prevenzione e sostegno a chi subisce violenza.

La Legge n. 119 del 2013 contro il femminicidio rende più incisivi gli strumenti di repressione penale di maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale e stalking, e rafforza prevenzione e protezione.

Come previsto dalla stessa legge è poi stato finanziato – dalla legge n.14 del 2013 – il Piano contro la violenza sessuale e di genere 2014-2016, che punta a un sistema di governance multilivello per coordinare le azioni di tutte le amministrazioni pubbliche, del privato e dell’associazionismo (in particolare con riferimento ai centri antiviolenza) attraverso un modello integrato di contrasto del fenomeno e di protezione delle vittime, con progetti territoriali e formazione.

Nei decreti attuativi del JobsAct è stata introdotta la possibilità, per le donne vittime di violenza sessuale e di genere inserite nei percorsi di protezione, di accedere al congedo retribuito fino a tre mesi.

Con la legge di bilancio 2016, ancora, si è deciso di estendere a tutto il territorio nazionale il Codice Rosa, un percorso di protezione, dedicato alle vittime di violenza, abuso e maltrattamento, attivato presso Pronto Soccorso e Asl.

Ed è di ieri la notizia dell’accordo in Conferenza Stato-Regioni, grazie al lavoro del Dipartimento per le pari opportunità, che ha destinato 31 mln di euro per sostenere l’attività svolta dai centri antiviolenza e dalle case rifugio e per tutte le attività che riguardano non solo accoglienza e sostegno ma anche l’autonomia abitativa, il reinserimento nel mondo del lavoro, la formazione del personale sanitario.

Offrire assistenza e sostegno alle donne che subiscono violenza è decisivo, per permettere da subito di passare da una relazione violenta ad una relazione umana, di accoglienza ed empowerment, e per iniziare a recuperare la fiducia.

La seconda area di interventi è quella che possiamo definire welfare alla persona, che unisce misure per il lavoro, per migliorare i servizi alle famiglie, per sostenere il reddito delle donne.

Il lavoro è non solo valore fondativo della Repubblica, ma anche ciò che definisce le possibilità per donne e uomini di realizzare se stessi. Ed il modo con cui donne e uomini partecipano alla crescita e al benessere.

Creare lavoro femminile, superare il gender gap salariale, facilitare l’accesso alle posizioni apicali: tutto questo serve al Paese. Il lavoro delle donne è la risorsa più potente che abbiamo per far crescere il benessere per tutte e tutti.

In questi anni anche su questo terreno si è lavorato.

Nella legge di bilancio 2016 si è intervenuto sul welfare aziendale e sui premi di produttività, prevedendo la possibilità di detassarli o convertirli in ticket per servizi. Inoltre si è stabilito che il periodo di maternità concorre al calcolo del premio di produttività. E che i congedi parentali possono essere riscattati ai fini pensionistici.

È stata, ancora, modificata l’“Opzione donna”, permettendo alle lavoratrici l’accesso alla pensione anticipata con un’anzianità contributiva pari o superiore a 35 anni e un’età pari o superiore a 57 anni e 3 mesi se lavoratrici dipendenti e a 58 anni e 3 mesi se autonome.

Con il Jobs Act, inoltre, si è estesa l’indennità di maternità a tutte le lavoratrici iscritte alla gestione separata, indennità garantita anche in caso di mancato versamento dei contributi da parte del datore di lavoro.

Per sostenere il reddito delle donne, sempre con la legge di bilancio 2016, sono stati previsti i voucher per baby sitter: 600 euro al mese, per sei mesi, alle lavoratrici dipendenti o parasubordinate, per pagare baby sitter o asilo nido. E lo stesso voucher è stato sperimentato per 3 mesi anche per le lavoratrici autonome.

Con la legge 190 del 2014, invece, si sono stanziati fondi per dare fino a 960 euro l’anno, per tre anni, di Bonus Bebè alle famiglie o singole mamme, sia lavoratrici che disoccupate, per i bambini nati o adottati tra il 2015 e il 2017.

Il terzo ambito di intervento è quello più culturale e di lungo periodo: lavorare sul riconoscimento, sul rispetto, sul valore delle differenze: donne e uomini insieme, per condividere le scelte di futuro e costruire più benessere per tutte e tutti.

Cambiando, come dicevo in precedenza, il nostro modello culturale, sociale ed economico.

Non si tratta di un ambito di azione circoscritto, ma largo, che tocca temi e questioni diverse e complementari, unite dal filo delle identità personale e sociali, dell’empowerment, della corretta socialità, del racconto collettivo.

Misure e interventi che riguardano la scuola, l’informazione, i media, i linguaggi.

 

Vi faccio tre esempi.

Il primo è il cambiamento previsto dal jobs act nella procedura per i licenziamenti volontari, che dovrà essere telematica e con codice identificativo progressivo, in modo da rendere impossibile il ricorso da parte dei datori di lavoro alle dimissioni in bianco. È un intervento che cambia l’esperienza quotidiana del lavoro per tante giovani donne e assume un forte valore simbolico, perché elimina una delle più vili e odiose forme di discriminazione verso le donne e verso il futuro.

Il secondo è l’educazione di genere, con la norma prevista dalla Buona scuola (Legge 107 del 2015) che inserisce nel Piano di offerta formativa di ogni scuola l’educazione alla parità tra i sessi e la prevenzione della violenza.

L’ultimo esempio di misura di cambiamento concreto e politico-culturale riguarda il congedo di paternità, che con la legge d bilancio 2016 è stato portato a due giorni obbligatori. Un primo segnale, ancora insufficiente, ma anche questo simbolico, perché inizia a lavorare sulla condivisione delle responsabilità verso i figli di madri e padri, con un elemento di uguaglianza sia nei confronti delle donne sia degli uomini, che sempre più spesso oggi vogliono dedicare tempo ai figli e chiedono che anche la paternità sia un campo di diritti da accrescere ed esercitare con maggiore facilità.

Il quarto ambito di intervento riguarda la rappresentanza politica e istituzionale.

Gli interventi normativi di questi anni garantiscono oggi che tutte le leggi elettorali rispettino l’equilibrio di genere.

Con la legge n. 56 del 2014 abbiamo inserito la Parità di genere per comuni e città metropolitane, prevedendo che in liste e giunte nessun sesso sia rappresentato in misura inferiore al 40%.

Con la legge n. 65 del 2014 abbiamo inserito la tripla preferenza di genere nella legge elettorale per le europee.

Nell’Italicum – legge n. 52 del 2015 – è previsto che nelle liste elettorali nessun sesso possa essere rappresentato in misura superiore al 50%, con norme mirate per i capilista (nessun sesso può essere presente in misura maggiore del 60%) e con la doppia preferenza di genere.

 

Lavorare sulla rappresentanza per renderla equilibrata e paritaria serve a permettere al Parlamento e alle istituzioni locali di rappresentare meglio la realtà.

Di conoscere, interpretare, governare i processi reali e i cambiamenti in corso.

Ecco perché trovo che sia davvero importante – in questo senso – la modifica prevista dalla riforma costituzionale degli articoli 55 e 122 della Carta.

Se vincerà il SI nell’art. 55sarà scritto che “Le leggi che stabiliscono le modalità di elezione delle Camere promuovono l’equilibrio tra donne e uomini nella rappresentanza”. E nell’art. 122 ai principi cui devono attenersi le leggi per le elezioni regionali verrà aggiunto quello della rappresentanza di genere.

La Riforma, quindi, rafforza le modalità con cui esercitare e garantire l’uguaglianza, già valore fondamentale della Costituzione.

 

Che una rappresentanza di genere equilibrata porti a scelte legislative e azioni di governo più corrispondenti alla realtà e alle esigenze del Paese lo dimostra il lavoro di questa legislatura.

Scelte, interventi e risultati sono stati possibili anche perché questo è il Parlamento con il maggior numero di donne della storia repubblicana.

E perché donne e uomini al Governo e in Parlamento hanno lavorato insieme, in piena e fattiva collaborazione, consapevoli che quella contro discriminazioni e violenze e per effettive pari opportunità è una sfida che riguarda il futuro di tutte e tutti noi.

 

Valeria Fedeli, Vicepresidente del Senato

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