«Misero Catullo, smettila di vaneggiare, e quello che hai perduto consideralo perduto per sempre». Marco Minniti siede nel suo ufficio da parlamentare dell’opposizione, dieci, forse dodici volte più piccolo di quello che ha occupato al Viminale per 17 mesi. Ma non sembra farsene un problema, la faccia è rilassata, il sorriso frequente, i rimpianti inesistenti.
«Festeggio vent’anni di potere, era il 1998 quando D’Alema mi portò al governo, ai Servizi per l’esattezza. Mi sono preso tutte le mie responsabilità, scriverò un libro per raccontare cosa ha significato per me il rapporto con questo mondo…».
L’ex ministro dell’Interno cita i versi disperati del poeta latino, non contraccambiato in amore da Lesbia, ma non li dedica a se stesso.
«Penso alla mia parte» spiega, «mai la politica ha trovato un suggeritore migliore di Catullo. Quando subisci una sconfitta devi mettere un punto e tagliare prima di ricominciare. Se pensi di continuare, vaneggi».
Eppure lei è molto stimato da Mattarella. Si vocifera che per lei fosse pronto un posto di prestigio nel governo del presidente e nella lista di Cottarelli…
«A me non risulta tutto questo. Ma poi sa, io non sono un predestinato, non lo sono mai stato nella mia vita. Si figuri che io volevo fare il pilota. Da piccolo mi mettevo sotto le coperte e facevo il volo cieco. Mia madre pensava che non fossi normale. Poi, quando crebbi, mi impedì di seguire la mia passione. Sono l’unico figlio maschio, arrivato dopo due femmine e dieci anni di tentativi. Andavo preservato, secondo la tradizione del Meridione profondo. Così sterzai sulla politica, giovanissimo, e anni dopo mia madre mi disse che forse il pilota sarebbe stato un lavoro più sicuro».
È dalla passione per il volo che nasce la favola del Minniti di destra?
«So di dare quest’impressione ma la mia vita è costruita a sinistra fin dall’inizio. Credo che tutti siano tratti in inganno dal mio carattere. Per caso o per convinzione, sono sempre stato un solista. Non sono capace di prendere un ordine. Quando il giovanissimo Velardi, nel 1973-74, arrivò da Napoli a Reggio Calabria per commissariare la Fgci, come vede i litigi a sinistra hanno un’antica tradizione, io lo scarrozzavo sulla 500 di mia sorella. Lui mi disse: “Gira”, ma non spiegò il perché e io tirai dritto. Tirò il freno a mano e la macchina cominciò a roteare in testa coda in pieno centro».
Povera sinistra. Orgoglio o testardaggine?
«Ho un rapporto appassionato con le mie idee e devo essere profondamente convinto di una cosa per farla. Il risvolto della medaglia è che sono portato a tener conto delle ragioni degli altri, il che è controcorrente rispetto al tempo attuale. Le ho detto che amo il volo: sono un solista, quello che nella pattuglia acrobatica è fuori dagli schemi. Se lo intruppi, lo uccidi. Ma se ne fai a meno, muori tu».
Quanto si è sentito solo al Viminale, quando lei faceva gli accordi in Libia per frenare gli arrivi degli immigrati e combatteva le navi delle Ong in contatto con gli scafisti mentre la sinistra parlava di ius soli e accoglienza indiscriminata?
«Non mi sono sentito solo ma sapevo che dovevo assumermi solo io delle responsabilità per l’interesse del Paese e portarne il fardello pesante. Sono convinto che per me e per la mia parte politica fosse fondamentale dimostrare di saper conciliare il principio di sicurezza con quello di libertà. Sono due valori ma anche due sentimenti profondi del popolo italiano. Una democrazia che rinuncia a uno di questi principi per tutelare l’altro, è fragile. I governi vincono la sfida se riescono a dare ai problemi della gente una soluzione generale in cui tutti si riconoscono».
Missione fallita?
«Io ho garantito libertà e sicurezza. Non indugerò sul fatto che i reati sono in calo verticale, come del resto gli sbarchi. Ricordo solo che quando, da leader della Lega, Salvini organizzò una manifestazione a Napoli e il sindaco De Magistris la vietò, io non mi consultai con nessuno, assunsi la giurisdizione del posto, chiamai il prefetto dicendo che il comizio si sarebbe tenuto e inviai mille agenti da Roma per far sì che nessuno gli impedisse di parlare. Ritegno che in una democrazia sia più importante garantire il diritto di parola di quelli che non la pensano come te rispetto a quelli che invece la pensano come te».
La mia era una domanda più generale…
«L’immigrazione è un tema cruciale per tutte le democrazie e non solo per l’Italia. Il Pd ha perso le elezioni perché non ha saputo rispondere a due sentimenti profondi, la rabbia e la paura. Nel 1999 andai a Bologna, in città era scattata una psicosi sicurezza. Io arrivavo da Reggio Calabria e, sciorinando dati, provai a convincere la cittadinanza che la città era tranquillissima. Si alzò un vecchio compagno. “Minniti”, disse, “la mia signora quando torna a casa la sera vede un sacco di sbandati e ubriachi sotto i portici; se mi rispondi con le cifre significa che non hai capito un c…”. Andai via piccato, ma aveva ragione lui».
Il compagno non credeva al suo storytelling?
«La sinistra riformista ha fatto un sacco di cose al governo e ha ottenuto dei risultati ma ha trattato con supponenza la rabbia e la paura dei ceti più deboli. Colpa della solita superiorità morale: siamo talmente convinti di essere nel giusto da allontanare con il nostro atteggiamento chi non ci segue in tutto quel che diciamo. Non riusciamo a dare dignità a chi non la pensa come noi. Se uno è preoccupato perché la sua condizione economica è peggiorata e noi gli spieghiamo che, dopo anni di crescita negativa, il Pil è salito non facciamo che erigere un muro di incomunicabilità e confermargli la sensazione che ha di essere fuori».
Anche il Pd ha giocato la carta della paura per vincere le elezioni, gridando all’uomo nero: ricorda l’allarme fascismo?
«C’è stato un evidente difetto di presbiopia, vedevamo bene le cose lontane e non quelle vicine: si pensava che il problema fossero CasaPound e Forza Nuova, che insieme hanno preso 1’1,6%, e non ci accorgevamo che i partiti populisti, M5S e Lega, insieme avevano la maggioranza assoluta».
Vecchi schemi o malafede?
«Abbiamo un populismo di destra, ma chi lo immagina in camicia nera, come nel film ‘Sono tornato’, è pigro mentalmente. È stata messa in campo un’idea moderna».
Scusi ma perché dice “destra” alludendo anche a Cinquestelle?
«È evidente che dal punto di vista politico e culturale la guida del governo non appartiene a M5S. Lega e Cinquestelle sono arcipelaghi diversi, non sarà semplice per loro gestire l’alleanza ».
Quanto dura questo governo?
«Si illude chi pensa che finirà per autoconsunzione in pochi mesi. Se il consenso aumenta, il governo andrà avanti; se cala, non lo faranno cadere per paura della verifica. Anche se Conte è un vaso di coccio tra due diarchi, la personificazione della debolezza di questo governo, sono convinto che l’alleanza durerà finché non emergerà un’alternativa. E io credo che essa non si formerà in Parlamento ma verrà dalla società: si tratta di mettere insieme un progetto ampio che recuperi valori comuni».
Non mi dica che anche lei è fautore di un novello Fronte Repubblicano contro i populismi?
«Temo una deriva estrema dal punto di vista dei valori che possa mettere in discussione principi fondamentali per l’elettorato moderato italiano. Salvini dice che non ha più senso la contrapposizione destra-sinistra e parla di scontro tra popolo ed élite. Per me invece il conflitto è tra società chiusa e società aperta: i concetti di identità e confine sono importanti e vanno difesi ma per esaltare le specificità, non per marcare distanze in chiave meramente oppositiva, all’interno del sacro blog. Guardi che oggi lo schieramento socialmente e politicamente maggioritario non è il fronte populista M5S-Lega ma quello che teme l’affermarsi del radicalismo e che magari non ha votato».
Non pensa che, se M5S e Lega litigano e salta Conte, i grillini si spaccano, il centrodestra si ricompatta e il governo va avanti?
«Non so se la frattura in corso nel centrodestra sia recuperabile. Certo, se il centrodestra resta orfano di Berlusconi e di un’idea sorpassata di se stesso, è inevitabile che la Lega lo fagociti. A destra c’è un buco da 25 anni. Berlusconi, con la sua anomalia, l’ha colmato ma oggi non c’è più».
Aveva provato Renzi a colmarlo, ma gli è andata male…
«Quel famoso 41% delle Europee del 2014 in fondo rappresentava questo: la sinistra che si apriva ai moderati e andava oltre i propri confini».
Ma allora anche lei dimentica Catullo, e io pensavo che fosse solo Renzi a illudersi?
«Quel 41% diventato 18 in poco tempo ci dice due cose. Quella negativa è che non c’è più la vischiosità tra elettorati che abbiamo avuto fino al crollo del Muro di Berlino, quando un comunista non avrebbe mai votato Dc e si vincevano le elezioni spostando l’1% dei votanti; pertanto puoi avere collassi rapidi, come è capitato a noi del Pd. Quella positiva è che il quadro politico può avere evoluzioni rapidissime, nulla è conquistato per sempre, e neppure per poco. Certo, devi esprimere soggettività politiche nuove, e qui torno a Catullo».
Che ministero lascia a Salvini?
«Quando andai la prima volta in Europa, poco più di un anno fa, a dire che mi sarei recato in Libia per stringere accordi e regolare i flussi migratori mi guardarono come un pazzo e non mi risero in faccia solo perché sanno che sono permaloso. Ho telefonato a Salvini ma non mi ha richiamato. Ormai considero archiviata la questione del passaggio di consegne, sarà per il prossimo governo. Gli avrei consigliato di puntare tutto sui rapporti con i Paesi africani se vuole continuare a tenere sotto controllo i flussi».
Nel fine settimana il leader leghista ha subìto il suo primo sbarco da ministro: è colpa di Salvini o sua?
«Lo sbarco non mi ha sorpreso. Non è possibile cancellare l’immigrazione, si può solo cercare di governarla. Mi auguro, nell’interesse del Paese, che ci riesca anche Salvini ma deve capire che il problema è nel Mediterraneo. Può provare simpatia per Orban, l’Ungheria e il Patto di Visegrad, ma loro non lo aiuteranno mai con gli sbarchi. L’Italia ha fatto cose che ci hanno fatto diventare un punto di riferimento nel mondo. Le ricordo che il 2017 è stato un anno orribile per l’Europa ma noi non abbiamo mai subito attacchi terroristici».
Grazie a cosa?
«Grazie agli accordi con Libia e Tunisia e grazie al fatto che abbiamo un sistema integrato di forze di polizia, intelligence e magistratura che non ha eguali al mondo e ha sconfitto senza aiuti esterni e senza scendere a patti politici sia il terrorismo sia la cupola mafiosa. È un patrimonio che vorrei che nessuno guastasse e che va maneggiato con estrema delicatezza».
E per questo che Conte non vuol dare a nessuno la delega ai Servizi?
«Una risposta ce l’ho ma non si aspetterà mica che gliela dia. Non voglio entrare in un gioco di specchi».